C’era una volta Matteo Renzi a Pisa

Dalla presenza al Cnr a un intervento video per festeggiare i trent’anni di internet in Italia; che Matteo Renzi oggi sia davvero a Pisa o no fa poca differenza. Le politiche di genere e la lotta alle discriminazioni e all’omo-transfobia si trovano in una situazione di immobilismo. Anzi, per la precisione: il governo Renzi può vantare più hashtag che azioni positive.

Decreto Legge sul femminicidio, forse
Cominciamo dagli antefatti: nel 2013 il governo Letta approva il cosiddetto decreto legge sul femminicidio. Degli 11 articoli del decreto, solo 5 sono dedicati alla violenza di genere, il resto riguarda furti di rame, protezione civile, NoTav, frodi informatiche e province. Sembrerebbe che con questo decreto le donne vengano sfruttate per poter far passare leggi repressive. Il decreto stabilisce anche le condizioni di irrevocabilità della denuncia. Le stime dicono che circa 7 milioni di donne hanno subito violenza fisica o sessuale, e solo il 7% di queste ha denunciato l’aggressore. Si tratta di una percentuale che la dice lunga sul livello di sicurezza che lo Stato è in grado di garantire alla donna abusata, e sul percorso di protezione che le è dovuto in caso scelga di denunciare – scelta problematica e niente affatto scontata.
Inoltre, anche quando la donna denuncia, spesso non viene creduta proprio nei luoghi previsti dalla legge, e cioè prima dalle Forze dell’Ordine e poi in tribunale, dove se viene creduta spesso si minimizzano le violenze ricevute. Evidentemente, un problema profondamente strutturale come la violenza di genere non può essere risolto con un decreto legge che non prende in considerazione la cultura sessista in cui viviamo.
Certo, questo non è imputabile al governo Renzi, ma dal decreto sul femminicidio derivano sia i miseri stanziamenti di fondi di cui vi parleremo dopo, sia il Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, entrato in vigore l’anno scorso.

Un piano d’azione straordinariamente… Vuoto
Breve analisi linguistica del Piano d’azione: si citano la convenzione di Istanbul, le Nazioni Unite e le raccomandazioni internazionali; si usano parole come “multifattorialità”, “fenomeno strutturale”, “approccio olistico” e “contrasto allo stereotipo di genere”; si parla di una “strategia basata su una governance multilivello” e di “azioni in sinergia”. E poi che succede davvero?

  • Lʼelaborazione dei dati sulla violenza contro le donne passa dall’Istat – che aveva fatto un buon lavoro – al Dipartimento per le pari opportunità. Ce n’era bisogno?
  • Viene costituita una “Banca dati nazionale dedicata al fenomeno”, con gruppo di esperti che dovrà elaborare proposte di progettazione e di sviluppo del sistema informativo. Eh?
  • Per quanto riguarda il settore media e comunicazione, il Piano intende sensibilizzare gli operatori e non formarli in modo specifico, e fa riferimento all’adozione di un generico piano di autoregolamentazione. Anche in questo ambito la prevenzione della violenza è affidata a un gruppo di esperti – un altro! – che dovrà occuparsi anche di cambiare il linguaggio nella pubblica amministrazione. Come?
  • Educazione alla parità e al rispetto delle differenze: il Governo elaborerà un documento di indirizzo, darà l’opportunità di fare formazione ai docenti – non è obbligatoria, è facoltativa – e darà pure la possibilità di rivedere i libri di testo, «fermo restando la libertà di scelta e di rispetto dei destinatari dei libri di testo, nonché della libertà di edizione». Quindi ok, non c’è davvero nulla che sia obbligatorio cambiare.

Il Piano d’Azione prosegue, ma restando sulla scuola: a quali differenze vuole educare il governo Renzi? A tutte, o solo a quelle minime indispensabili? Ce lo chiediamo pensando ai libretti realizzati da UNAR e Istituto Beck due anni fa, intitolati “Educare alla diversità a scuola”, indirizzati ai docenti e fatti ritirare dalla ministra Giannini dopo gli schiamazzi di Bagnasco e dei giornali Tempi e Avvenire.
Un altro momento di cui il governo Renzi dovrebbe vergognarsi.

#CiaoneCodiceRosa
Con la legge di stabilità 2016 si è passati dal Codice Rosa ospedaliero, che prevedeva la formazione degli operatori sanitari al riconoscimento delle situazioni di violenza per fornire supporto alla donna maltrattata, al Percorso di tutela delle vittime di violenza.
I punti critici sono due. Primo: si assimila la violenza contro le donne a qualunque altra forma di violenza contro i soggetti vulnerabili, e quindi anche minori, anziani, persone con disabilità. La legge nega sia le radici della violenza contro le donne, che sono culturali e storiche, sia la convenzione di Istanbul, approvata all’unanimità nel 2013, che prevede un percorso individuale per le donne vittime di violenza maschile.
Secondo: è istituito l’obbligo di denuncia una volta accertato il fatto di violenza nella struttura sanitaria. Solo in questo caso saranno attivati i gruppi multidisciplinari di assistenza giudiziaria, sanitaria e sociale e tutto il percorso di assistenza, in collaborazione con i centri antiviolenza. L’obbligo di denuncia è l’ennesima soluzione paternalistica al problema, nel quale si ritiene la donna incapace di decidere del suo destino. Per di più, si ignorano anche i bisogni della singola vittima, che potrebbe preferire attuare soluzioni diverse o continuare la propria vita così com’era, per una pluralità di motivi, non ultimo l’incolumità di minori.
Inoltre, come ci insegnano i numerosi casi di femminicidio, spesso le denunce non sono bastate ad evitare la morte di chi le ha sporte, e questo perché o rimanevano inascoltate, o perché, in caso di detenzione, il carcere si dimostrava punitivo e non rieducativo. La denuncia, obbligatoria o no, non risolve il problema del sessismo, dell’educazione di stampo patriarcale, di tutte quelle che sono le vere radici della violenza di genere.

Fondi per i centri antiviolenza: #MatteoRispondi
Fin dagli anni Novanta, a occuparsi del percorso di uscita dalla violenza sono stati i centri dedicati e le case rifugio. Il governo Renzi non garantisce fondi adeguati a tutte queste strutture: l’Huffington Post ha fatto notare che dei fondi stanziati per il biennio 2013/2014 grazie al decreto legge sul femminicidio, solo due milioni sono andati alle strutture esistenti che accolgono e assistono le donne vittime di violenza. Visto che i centri individuati dal governo sono 352, la cifra che spetta a ognuno è appena 3mila euro all’anno.
Non solo: in base alla ricerca condotta da ActionAid in collaborazione con Dataninja, «nessuna Regione italiana può dirsi totalmente trasparente nella gestione dei fondi stanziati con la legge 119/2013 per prevenire e contrastare la violenza sulle donne». Questo significa che le delibere di alcune regioni e province sono irrintracciabili, sia online che su richiesta diretta; che in quasi la totalità dei casi non è possibile avere informazioni precise sulla destinazione delle risorse per tipo di intervento e per area strutturale, e a volte nemmeno informazioni sulle strutture antiviolenza presenti sul territorio. In generale, le Regioni non hanno incluso nelle delibere i nomi delle strutture antiviolenza territoriali che beneficiano dei fondi, unica eccezione la Sardegna.
Che ne è, poi, della raccomandazione del Consiglio d’Europa secondo cui dovremmo avere un posto letto nelle case rifugio ogni 7500 abitanti e un centro dʼemergenza ogni 50mila abitanti? Matteo, rispondi: in Italia dovrebbero esserci circa 5700 posti letto, e invece ce ne sono più o meno 500.

Aborto in Italia: missione quasi impossibile
Non ci sono novità positive nemmeno per quanto riguarda la legge sull’aborto, la 194. Il 15 gennaio scorso l’aborto effettuato oltre i 90 giorni di gravidanza è stato depenalizzato, ma allo stesso tempo la multa per il reato di aborto clandestino è passata da 51 euro a una cifra che oscilla fra i 5mila e i 10mila euro. Ancora un volta il Governo ha attuato una tattica punitiva nei confronti delle donne dimenticando il problema principale: l’obiezione di coscienza, che nel complesso è del 70% circa ma è pure in aumento, e in alcune regioni supera il 90. Le stime ci dicono che, nel 2012, 21mila donne su 100mila si sono rivolte a strutture di altre province. Di queste il 40% è stata costretta a cambiare addirittura regione.

#MoltoPiùDiCirinnà
Attenzione a dire, Matteo, che le leggi sono state portate a casa. Al 29 aprile 2016 l’Italia non ha né una legge per il contrasto dell’omotransfobia né una riconoscimento legale per le unioni civili fra persone dello stesso sesso. Il decreto Scalfarotto è in corso di esame in commissione da due anni. Due anni esatti, li compie oggi: buon compleanno!
Per non parlare dell’approvazione della legge sulle unioni civili, con quella brutta discussione in aula dove, tanto per dirne una, le stepchild adoption – una parola così intellegibile – sono diventate strizza cialde ad ozio o stoccald addosso. Il punto, però, non è esattamente linguistico, o non soltanto tale. Il ddl Cirinnà, più che sancire la parità dei diritti, ribadisce la disuguaglianza fra persone eterosessuali e omosessuali, nei fatti e nei termini. Da una parte famiglie, dall’altra specifica formazione sociale; da una parte il matrimonio, da quell’altra le unioni civili; e soprattutto, da una parte la possibilità, per le coppie etero, di adottare il figlio del partner (dal 1983), e dall’altra…nulla. Non c’è da stupirsi se nella classifica 2015 stilata da ILGA-Europe in base ai diritti LGBTQ l’Italia si trovi al 32esimo posto su 49 stati.
In ogni caso, quello che ci fa più male sapere, come collettivo femminista queer e come singol*, è che con ogni probabilità la legge sulle unioni civili disciplinerà le nostre vite per molti anni a venire. Lo abbiamo già detto il 23 gennaio e lo ribadiamo: noi pretendiamo #moltopiùdiCirinnà!

Anche stavolta non è #LaVoltaBuona
Vogliamo concludere ricordando che, da molti mesi, il Dipartimento per le Pari Opportunità non ha un Ministro o una Ministra dedicati, contrariamente a tutti gli altri governi della seconda Repubblica, e da novembre è addirittura privo di direzione. A maggior ragione ora – ma lo sarebbe anche solo per principio – riteniamo sia necessaria la presenza di una Ministero che coordini le varie attività e faccia rispettare gli ordinamenti statali e i patti presi a livello internazionale. Matteo, non basta assegnare dei ministeri a delle donne per risolvere i problemi di genere in Italia!

Matteo, che altro dire: noi #NonSiamoSerene.

Una gringa in Perù, tra curiosità e machismo.

Quella che segue non vuole essere una descrizione oggettiva della realtà femminile peruana e dei rapporti di potere tra uomini e donne, bensì il racconto della mia personale esperienza di unica “bianca” in un piccolo paesino delle Ande.

“Hola gringa!”
“Como?”
“Ti ha detto ‘hola gringa’…”
“Ho capito perfettamente cosa mi ha detto, grazie… Ma perché dovrebbe avermi detto una cosa del genere?”
“Aurora… Guardati intorno! Sei bianca, l’unica bianca nel raggio di un centinaio di metri, forse anche di più. E’ normale, sei una gringa e tutti ti guardano. E’ il sogno di un po’ tutti stare con una come te.”
“Per ‘una come me’ intendi… Un’europea? Una dalla pelle chiara?”
“Certo, una dalla pelle chiara…”

Gringo è una parola prettamente sudamericana, usata per riferirsi a stranieri o straniere che siano, soprattutto se dalla pelle chiara. Le origini del termine non sono accertate: c’è chi dice che sia stato coniato per designare coloro che parlavano una lingua incomprensibile, e chi invece che derivi dall’inglese “Green go away”, frase riferita ai militari statunitensi le cui uniformi verdi hanno invaso e contribuito a lacerare non pochi stati dell’America Latina.

Beh, per la prima volta nella vita – devo ammetterlo – mi sono sentita una gringa, una straniera, una privilegiata per la valuta che ha in tasca e l’origine del suo passaporto. Una mosca bianca in un fiume di curiosità, violenza e machismo.

Mi trovo nel secondo paese latinoamericano per numero di femicidi[1] dopo la Colombia[2], decessi che rappresentano solo la fase estrema di una serie di violenze che coinvolgono dal 50 al 60% delle donne peruviane[3]. In particolare, il Surandino[4], a causa di un insieme di fattori sociopolitici ed economici che, nel corso del tempo, ne hanno fatto una delle zone più remote e dimenticate dal governo, nel 2013 si è qualificato con uno dei più alti tassi di violenza domestica di tutto il paese. E la violenza, qui, si vede.

Ne soffrono donne e bambini che la subiscono, ma ne soffrono anche coloro che la perpetrano. Si tratta di una violenza molto forte e radicata in una società cattolica e tradizionalista, in cui i ruoli di genere sono decisamente assegnati fin dalla nascita. E guai a chi cerca di uscirne. Le donne hanno tutte, e dico tutte, i capelli lunghi, perché “solo la donna con i capelli lunghi è una bella donna”. Aspettano ansiose i loro mariti, conviventi, fratelli, padri a casa, perché “il compito di una donna è quello di cucinare per chi la ama e la protegge”. Non escono sole la sera, non solo per il rischio di subire molestie, ma perché “non sta bene. Che ci va a fare in giro una donna da sola?”. Gli uomini, invece, non possono piangere. “E’ da checca!”. E non possono mostrare affetto. “E’ da deboli!”. Devono essere bravi a giocare a calcio e farsi avanti con le ragazze. Ovviamente, l’omosessualità non esiste. Esattamente come la sessualità femminile, che viene negata in maniera categorica. Una donna può avere un uomo ed un solo uomo nella sua vita. Viene picchiata, lasciata, abbandonata con la prole? Rinuncia a se stessa e non esiste più.

Senza titolo1Piangere non ti rende meno uomo. Il coraggioso non è violento Perù [5]

 

Per me bianca, invece, le cose possono essere un po’ diverse. Io merito rispetto per il posto da cui provengo e perché, a quanto pare, rappresento il sogno proibito di molti uomini. Già… A me si avvicinano in tanti, sono gentili, mi offrono da bere. Cercano di parlarmi e di corteggiarmi, ma il tutto viene fatto in maniera apparentemente più rispettosa di come si comportano con le ragazze del posto. Eppure… L’ombra del machismo si rivela poco dopo: “E se ti dicessi che sono lesbica?” “Tu non puoi essere lesbica, sei bella… E, poi, le lesbiche esistono solo nei film porno!”.

(Una bella donna è colei che lotta)

Già… In una società patriarcale e binaria, in cui ognun* sa esattamente cosa ci si aspetta dal sesso che gli/le è stato assegnato alla nascita, non c’è spazio per il dissenso: l’uomo domina (o crede di dominare, ma è a sua volta soggiogato da regole di comportamento che lo strangolano poco a poco), la donna si fa bella, sorride ed ubbidisce (e, a volte, viene strangolata sul serio… Ma questo conta poco). Io, europea ed “emancipata”, è normale faccia un po’ i capricci. Ma su, ammettilo, in fondo in fondo piace anche a te che ti riempiano di attenzioni. Farai un po’ la dura, sì, ma questa è la tua natura, non lo puoi negare. Voi donne siete così… Potrai anche non voler stare con me, ma di certo non per una ragazza. Le lesbiche non esistono, ricordi?

(Il patriarcato fotte tutt*)

(Il patriarcato fotte tutt*)

Alle volte si girano a guardare il ragazzo che mi accompagna: ha origini inca, è scuro e con i tipici occhi a mandorla. Perché io, bianca, perdo il mio tempo con lui – lui che non vale niente? Data la mia importanza, dovrei piuttosto cercarmene uno dalla pelle chiara e dai lineamenti fini. Uno che mi sappia far sentire donna per davvero.

Ed è così che, spesso ormai, penso a quanto la teoria dell’intersezionalità [6] sia fondamentale per lottare contro ogni tipo di ingiustizia: sessismo, omofobia, razzismo, classismo vanno di pari passo e si fomentano, non sono fenomeni a sé stanti, bensì differenti facce della stessa medaglia che imprigiona tutte e tutti. Noi, femministe europee e privilegiate, non dobbiamo dimenticarcene mai per non commettere l’errore di pensare che la nostra lotta sia solo nostra, o che i nostri metodi sono quelli “giusti”. Siamo in tante e tanti, nel mondo, a soffrire a causa di etichette che ci impediscono di vivere come vorremmo. Uniamoci e combattiamo per una società in cui le persone vengano prima. Prima del nostro colore della pelle, del sesso biologico che c’è stato assegnato, dell’orientamento sessuale, del reddito annuo della nostra famiglia.

Questo, tra le tante altre cose, mi sta insegnando un Perù diverso da come me l’immaginavo, eppure paradossalmente così simile a come l’avrei voluto.

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Note:
[1]
Con il termine femicidio s’intende l’uccisione di donne per mano di uomini per motivi di genere, cioè in quanto donne. Il concetto è stato coniato da Diana Russell, femminista, sociologa e criminologa statunitense, per svelare la natura sociale delle uccisioni di donne all’interno di una cultura patriarcale, in cui la morte rappresenta l’esito e la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine. Il termine femicide è stato tradotto in italiano con femminicidio, collegato etimologicamente a “femmina”, mentre femicidio, con una “m”, riporterebbe immediatamente alla nozione di omicidio, ma di donne. Il termine è stato introdotto in Italia dalla Casa delle Donne per non subire violenza di Bologna nel 2006.
[2] Dati riportati nel 2014 dalla Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi.
[3] Ovviamente, i dati governativi riportano stime molto più basse. Ma noi attiviste non ci fidiamo di chi conta solamente il numero di denunce effettuate presso le stazioni di polizia, vero? Sappiamo bene che la maggior parte delle violenze non vengono nemmeno riconosciute da chi le subisce… La prima violenza è farci credere che non sia violenza.
[4] E’ questa la denominazione attribuita alla zona delle Ande del Sud.
[5] Campagna di sensibilizzazione lanciata dall’ONU nel 2013 al fine di coinvolgere gli uomini nella lotta alla violenza di genere.
Per maggiori info, visitate la pagina FB: https://www.facebook.com/elvalientenoesviolento/timeline
[6] Il concetto d’intersezionalità emerge dalla politica femminista nera verso la fine degli anni ’70 e gli inizi degli ’80, allo scopo di mostrare come categorie e posizioni sociali quali genere, etnia e classe interagiscono e si sovrappongono, producendo ineguaglianze sociali sistemiche. Successivamente, lo stesso concetto fu ampliato per includere concezioni sociali come nazione, abilità, sessualità, età. In tal senso, l’intersezionalità ci offre una lente attraverso cui osservare tali categorie nella costituzione di processi mutuali e di relazioni sociali, che spesso si concretizzano in una serie di discriminazioni correlate tra di loro.

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authorbox aurora

 

Street harassment, molestie di strada, piropos: impariamo a chiamare le cose con il loro nome.

street harassment vignetta

Traduzione: – Essere una ragazza e divertente e tutto, ma devo assolutamente finire il mio libro – Hey bella! Le giro io le pagine del tuo libro! – Dannazione! – Non dovrei essere sexy ora… – Hey bella! Voglio spiumacciare il tuo piumino! – Ora voglio vedere se qualcuno mi infastidisce…. – Hey bella! Non hai caldo con quel costume?!

Chiamare le cose con il proprio nome è un modo per riconoscerle, definirle, dargli un senso e una collocazione. In Italia, nonostante la ricchezza e la versatilità del nostro linguaggio, non esistono termini per definire alcuni fenomeni che affliggono determinate categorie di persone, perciò vengono utilizzati vocaboli propri di altre lingue, come nel caso di “stalking” o “mobbing” (parole che dicono molto poco a chiunque non conosca la lingua inglese).

Esistono invece altri fatti e situazioni ai quali non viene neanche attribuito un nome, nonostante abbiano un notevole impatto sulla vita di molt* individu*. In particolare ci riferiamo ad un fenomeno molto diffuso che la maggior parte delle persone di sesso femminile, è quotidianamente costretta a subire: commenti sgradevoli, sguardi insistenti, occhiolini, fischi fino ad arrivare alle cosiddette “palpatine”.

La lingua inglese chiama questo fenomeno “street harassment” ovvero molestie di strada, quella francese “harcèlement de rue”, in quella spagnola e  quella portoghese – sotto la categoria delle molestie sessuali –  troviamo i “piropos”. Tuttavia, se in epoche passate questo termine significava principalmente galanteria, al giorno d’oggi il confine tra complimento e molestia è molto labile.

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Dunque, se tutte le lingue più parlate nel mondo hanno svariati vocaboli per definire questo fenomeno, perché una lingua dalle solide e ampie radici come quella italiana non contempla l’esistenza di questi termini?
L’espressione che più si avvicina a quelle sopra citate è  “molestia”, parola con un campo semantico così ampio che utilizzarla ha l’effetto di sminuire il fenomeno invece di attribuirgli importanza, poiché comparato con la gravità delle altre numerose tipologie di molestie sessuali. Infatti con  “street harassment” si fa’ riferimento alle molestie subite per strada, luogo in cui si è indifese e vulnerabili, alla mercé del sessismo più spietato.

Come collettivo femminista queer crediamo che ci sia una tendenza nel nostro paese a non nominare ciò di cui non si vuole ammettere l’esistenza, soprattutto per quanto riguarda la violenza di genere e le sue sottili sfumature. Come la psicologia ci insegna, quando si ha un problema è necessario prima individuarlo e identificarlo – chiamandolo con il proprio nome – per poi trovare possibili soluzioni. Per questo pensiamo che attribuire una terminologia precisa, adeguata e, soprattutto, familiare sia fondamentale per identificare e condannare piaghe sociali come le “molestie di strada”.

Articolo scritto da:

authorbox celine

 

GrazieQ!

Immaginatevi una biblioteca universitaria illuminata dal sole primaverile e abitata da decine di teste chine sui libroni polverosi (che magari si grattano anche per l’allergia). All’improvviso il religioso silenzio viene interrotto dal rimbombare di due risate sguaiate nel corridoio…
Bea: ooohhh Geooo! Mi è venuta un’idea geniale! Perchè non scriviamo un ringraziamento per il qollettivo, poi magari si pubblica anche sul blog![1]
Geo:Eeeehhhòòòòòòòòhòhhhheeeeejjjjjaaaaaaaahhhhhhh[2]!Senza titolo
Bea: Vai, bomba! Allora butto giù qualcosa e te poi aggiungi!
Geo: Aspe’ Bea! Lo facciamo sul serio oppure è la solita botta di entusiasmo condivisa?
Bea: No, venvia, proviamoci!
Geo: Eja dai, facciamo una sorpresa a tuttu!
…quello che leggerete è il risultato del lavoro di un cervello condiviso, capace di partorire scambi filosofici e trovate sensazionali, come pochi altri[3]. A questo punto, l’unica funzione che resta a questa premessa è quella di lasciarvi con un augurio dei più belli, oggi e sempre: “Buon viaggio!”[4]

Cartelli. Pennarelli. Spago. “Pensa agli slogan pensa agli slogan!”, “Oh ma la Q del logo chi la sa rifare?”, “Merda, questa cosa mi fa incazzare un sacco!”, “Chi lo scrive il comunicato?”.

È dai cartelli per il presidio di fronte alla Leopolda che è partita una delle esperienze più emozionanti e formative della mia vita fino ad ora. Oggi mi siedo davanti al PC e voglio proprio buttare giù qualche riga, giusto per sfogare il bisogno di dire al mondo quanto questa sia (e sia stata) importante.
A Marzo dell’anno scorso, di ritorno dalle terre fiamminghe più confusa che mai, ho deciso di tornare ad abbracciare le mie metà pisane per trovare un po’ di conforto e comprensione. Quello che ho trovato, però, è stato molto di più: le basi delle nostre discussioni infinite e dei vari pipponi incrociati su facebook, sono diventate nel frattempo motivi di lotta, spinte all’azione politica.
All’improvviso, tutto quello che ci eravamo dett* è stato riversato in prosa su un manifesto bellissimo, alle idee è stata data una forma e un colore, il viola. Va da sé che il mio entusiasmo è decollato, non vedevo l’ora di far parte di tutto questo.
Adesso, da laureata (puah!) in partenza per il tirocinio, mi guardo indietro e vedo tantissime cose, posso solo ringraziare chi l’ha reso possibile e me stessa, per aver trovato il coraggio di dire addio al commentare-senza-prendere-una-vera-posizione che sa tanto di quel qualunquismo che la Prof. del liceo non smetteva mai di condannare. E grazie alle assemblee di domenica sera, alle corse in treno a tutte le ore del giorno, ai report disegnati per mantenere la concentrazione, a tutte le volte che Enrico, Auro e Marta si prendevano quei dieci minuti per rispondere alle mie millemila domande, alle mie compagne (femminile inclusivo, chiaro) super speciali, agli incoraggiamenti ed agli insulti quando pronuncio la parola magica “femminismo”, ai vibratori in regalo per ogni festività, alle autoformazioni, ai cineforum, a* attivist* di oggi e di domani, perché il mondo non si cambia solo – ahimè – a forza di birrini e sorrisi (anche se spesso aiutano a farlo).
Un ringraziamento grosso, grossissimo, va infine al Queer: al concetto, all’idea, alla teoria ed alla pratica che vi sono connesse. Perché quella bambina che giocava con le automobiline e non capiva mai da che parte si mettesse l’ombretto è e sarà sempre infinitamente grata a tutt* quell* che rifiutano il genere binario, vedono le sfumature, le accettano e vanno oltre.
Il mio mondo era già di mille colori, oggi ne ha di infiniti e sono sicura che continueranno ad aumentare sempre di più. Grazie, grazie, grazie.

Senza titolo

Un po’ tuttu (Bea usa il femminile inclusivo e io mi ritrovo più nel sardo inclusivo, chiaro), chi più e chi meno, siamo stat* bambin* queer. Quando due anni e mezzo fa ci siamo ritrovat* insieme, tra un birrino e una festa drum’n’bass, a fare le prime autocoscienze è venuto naturale cominciare dall’infanzia: dai giochi che ci piacevano; dalle amichette e dagli amichetti con cui ci siamo confrontat*; dalle prime volte che ci siamo masturbat*; dal menarca e delle prime polluzioni; dal rapporto con le nostre famiglie e con la scuola; dagli episodi che ci hanno fatto sentire sbagliat* e inadatt* al fiocco rosa o blu, appeso alla porta di casa appena dopo la nostra nascita.
Queersquilie! per me, è stata una nuova culla, una nuova infanzia decorata di fiocchi dalle tinte arcobaleno.I profondi, combattivi e sinceri rapporti creati con le mie compagne (aveva ragione Bea sul femminile inclusivo, il sardo è un po’ stinfio) mi hanno permesso, tra panta rei e flussi di coscienza, di ricrearmi continuamente e di non farlo mai sola. Sempre sotto occhi attenti e vigili e, tante volte, con esperienze arricchite di punti in comune. Senza titolo
A breve, partirò per Porto, per un tirocinio post laurea. Un’associazione di femministe portoghesi (con cui sono entrata in contatto grazie a un’altra queersquilia, meglio conosciuta come Alelabella o come Diego, dopo che le Eyes Wild Drag [5] l’hanno aiutata a costruire la sua latina identità maschile) mi permetterà di creare dei laboratori, che verranno poi proposti all’interno delle scuole, per contrastare violenza di genere, omofobia, bifobia e transfobia a partire dal bullismo interscolastico. Quello che io farò, sarà concentrarmi sui diritti umani, empatici per definizione[6], e creare delle attività che mettano in luce atavici stereotipi e pregiudizi, che ancora popolano le scuole del mondo e fanno sentire ogni bambin* queer dentro un turbine di emozioni negative da cui fatica a vedere una via d’uscita.
Quando dovrò studiare i vari casi e provare a ideare i laboratori, penserò a tutti gli strumenti che le mie compagne hanno saputo condividere tramite autocoscienze, seminari, cineforum, presidi, contro-presidi, assemblee, trasferte, birrini sulle spallette, chiacchere (alla cdd-mattutine-prima di dormire-in onda con Queerwave-nel giardino di storia e filosofia-nelle anticamere dei bagni-in casa Conforti-per strada-in bici-in mensa), e pomeriggi nel giardino Shelley.

Ognuna di loro sarà mente, idea, braccio, Quore e speranza di quel laboratorio.

Questa quarta ondata di femministe, insomma, è FICA per un miliardo di motivi: l’intersezionalità delle lotte, la potenza e la fluidità del queer, le tre ondate precedenti (senza cui noi non saremo nelle piazze con cartelli tipo “la tiroide è donna- anche la clitoride”), i compagni UOMINI[7], il post-porno, il drag king (ancora grazie alle Eyes Wild Drag che hanno permesso anche la nascita di Gavino-sardo indipendentista e ancora poco convinto del suo orientamento sessuale – e Joele – bel giovinotto roscio e rampante -).

E io, entusiasta da sempre, non potevo che buttarmici a capofitto per lasciarmi travolgere e incontrare ragazze e ragazzi, ricch* di fermento, molotov e portamento (qualunque rimando ad Auro e Vivi, che mi mancano tanto, è puramente casuale) e a cui ora devo dire un gigante grazie.

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…oh, questo non è un addio. Sia ben chiaro! È un saluto a pugno chiuso e a cuorevagina che ci accompagna in ogni parte del pianeta!

Note:
[1] Ricostruzione realistica: le ragazze in questione parlano davvero per punti esclamativi. Sembra anche che abbiano iniziato a parlare in terza persona.
[2] Traduzione dal sardo al toscano: bah, ve(d)rai!
[3] Le autrici tenevano a rendere noto a* lettoru il dialogo precedente per dimostrarlo.
[4] Le autrici desiderano non citare la fonte, ma fare presente alla compagna Erica che non perderanno mai più i loro pomeriggi trastullandosi con lei e i suoi amici, soprattutto in piazza Dante
[5] http://eyeswilddrag.wix.com/eyeswilddrag
[6] Cit. Alessandra Ballerini (di cui io e Bea non nascondiamo, come ogni cotta condivisa che abbiamo, di esserne innamorate), avvocata genovese che si batte per i diritti umani fondamentali e lavora soprattutto per quelli delle persone migranti e delle donne.
[7] “Uomo?…Un uomo? Voglio parlare con una donna io!”

Articolo scritto da:

authorbox Beatrice

author box Geo

Dall’estetica alla libertà, pensieri e opere in transizione. Intervista a Micol Servello.

Qualche settimana fa sono capitata per caso ad una mostra di una giovane artista che mi ha molto colpito, sia per la spontaneità che ho percepito osservando i quadri esposti, sia per i soggetti raffigurati in di molti di essi: le donne. Poiché da sempre ho un debole per l’arte e per le questioni di genere, senza troppi giri di parole, le ho chiesto se potevo intervistarla e lei ha accettato.
L’artista in questione è Micol Servello, ha 22 anni, vive ad Asciano (Pisa) e studia Grafica all’Accademia delle Belle Arti di Firenze.

Raccontaci quando, come hai iniziato e perché.
Innanzitutto devo precisare che fin da piccola avevo la passione per il disegno, disegnavo sempre. Ovviamente ogni bambino lo fa, ma io ero particolarmente brava e all’ìnizio non credevo diventasse quella che spero sarà la mia “strada” o comunque la passione che mi accompagnerà sempre. Forse l’unica persona ad accorgersi delle mie abilità (a parte i miei genitori – a 4 anni disegnavo meglio di loro) ed a spronarmi fin da subito fu il mio nonno. Per vari motivi nella scelta della scuola fui indirizzata dai miei (uno scientifico), fatto che mi ha tarpato le ali e ha fatto sì che nei momenti di maggior noia e sconforto leggessi e disegnassi in modo alienante (odiavo la maggior parte del tempo a scuola). Ma nonostante la mia dote naturale, detestavo i miei disegni, infatti li regalavo tutti.

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Terrore Chiocciole, 2012, penna BIC su carta

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Scarabeo Rinoceronte, 2013, incisione a punta secca

Sono capitata alla tua mostra per puro caso e sono rimasta da subito piacevolmente colpita nel vedere che molti dei soggetti delle tue opere sono donne. Quali sono i concetti che vuoi trasmettere e perchè hai scelto di farlo tramite l’arte?
Inizialmente la scelta di disegnare solo donne non aveva scopi precisi, lo facevo e lo faccio perché amo la fisionomia femminile: penso che il corpo femminile sia il fulcro del concetto estetico per eccellenza, così come la nostra forza psicologica. Trovo che sia bello disegnare le curve femminili e quando lo faccio quasi mi impersonifico in ciò che disegno, non provo lo stesso piacere quando disegno corpi maschili. Credo però che dovrei cercare di evolvere la mia arte e trovare una sorta di significato che magari per ora esiste solo a livello inconscio e soggettivo.

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Maternità, penna BIC con sfondo ad acquarello

Quindi ti piace disegnare il corpo femminile per una questione principalmente estetica, però nei tuoi quaderni ho visto anche ritratti di donne ferite, con ematomi ed altri segni di violenza. Perché hai scelto di ritrarre le donne anche sotto questa particolare e drammatica luce?
Sì.  Per quei disegni mi avevano assegnato un tema particolare, quello della follia. Quindi ho deciso di ritrarre donne vittime sia di violenze carnali sia di stereotipi, ad esempio donne malate di anoressia, vittime inconsapevoli della società in generale. Ho disegnato anche donne senza occhi o con la bocca cucita, con le quali volevo rappresentare il meccanismo psicologico che purtroppo colpisce spesso le donne vittime di violenza tramite il quale si cerca, fin dove è possibile, di “non vedere” e di non esprimere a voce alta la propria infelicità, probabilmente per non renderla reale.

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Senza Titolo, matrice xilografica

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Fingere di non vedere, matrice xilografica

Ci sono molte artiste provenienti da tutto il mondo che utilizzano l’arte sia come strumento di denuncia, ad esempio Tatyana Fazlalizadeh e la sua lotta allo street harrasment, sia per diffondere messaggi di empowerment  femminile allo scopo di superare la concezione stereotipica di donna, come nel caso di Carol Rossetti. Tu ritieni che l’arte possa davvero veicolare dei messaggi che la società si dimostra generalmente riluttante ad accettare?
Certo, io penso che l’arte possa trasmettere molti messaggi che magari altri canali non riescono a comunicare con la stessa intensità. C’è da dire però che se la società e le menti delle persone rimangono chiuse, l’arte (come la letteratura, ecc… ) non può fare miracoli. I primi a dover voler fruire e magari vedere da un diverso punto di vista qualsiasi concetto o tematica, siamo noi stessi.

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Maschera, penna BIC, matita e pennarello

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Autoritratto, acquaforte con collage di applicazioni cartacee

Ci sono degli artisti o degli stili a cui ti ispiri particolarmente o che hanno in qualche modo segnato il tuo percorso artistico?
Mi piacciono molte cose diverse, molti autori di epoche disparate. Mi affascina un Klimt, come mi diverte un Banksy e via dicendo. Non ho, per adesso, un autore o un movimento “preferiti”, almeno non consapevolmente. Inoltre mi ritengo abbastanza ignorante in campo di storia dell’arte. Mea culpa!

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Blue is the warmest color, acquarelli, pennarelli e uniposca

Hai in programma altre mostre nei prossimi mesi?
Per adesso no, niente di programmato. Ma spero di poter riorganizzare qualcosa con l’aiuto del circolo Arci Asciano, e poi, chissà!

Se tu potessi mettere in parole uno dei tuoi quadri, che cosa griderebbe al mondo?
Un mio quadro griderebbe al mondo che non dobbiamo mai dimenticare la nostra dimensione di “donne selvagge”. Questa espressione è tratta da un libro che si intitola “Donne che corrono coi lupi”, che parla di come l’archetipo della figura femminile sia mutato nel tempo a causa dell’influenza della società, e che analizza i miti e le favole con le quali siamo cresciuti in chiave psicologica. Dei limiti li avremo sempre, siamo nate in un epoca dove è impossibile essere davvero “libere”, ma almeno dobbiamo TENDERE ALLA LIBERTÀ.

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Ispirazione Orientale, china e acquarello su tela

 

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authorbox celine

Disfare e fare il genere, l’orientamento, il soggetto, la classe

Le differenze, semmai, vengono sfruttate, come ad esempio nel caso del diversity management; oppure vengono messe al lavoro, in modo paternalistico, in favore di logiche politiche di abuso, se non proprio di sopraffazione e di distruzione, come nel caso del pinkwashing. Benché in entrambi i questi casi emblematici, l’inclusione (simbolica, strumentale) delle differenze all’interno di discorsi finalizzati a creare esclusioni (materiali, politiche) viene esaltata surrettiziamente come istanza di emancipazione, di progresso e di libertà, ciò non deve condurre alla frettolosa conclusione che l’omo-trans-sessuofobia, o il sessismo, o l’eteronormatività siano fenomeni tramontati con il passaggio definitivo dagli Stati-nazione alla governance neoliberale […]. Le forme di discriminazione “culturale” si combinano con quelle “economiche” in nuove forme, decisamente più subdole, su uno sfondo in cui permangono senz’altro tracce residuali delle loro passate configurazioni.[1]

 Pubblicare una nuova traduzione di Undoing Gender (2004) di Judith Butler, ormai diventato un classico degli studi di genere, significa, per Federico Zappino, compiere una doppia operazione: da un lato, riconoscerne il ruolo di pietra miliare, dall’altro – ed è per certi versi un gesto che muove in direzione opposta – restituirlo all’attualità, “a distanza di dieci anni, in un contesto sociale e politico in larga parte mutato; un contesto traversato molto più di allora proprio dalla crisi (economica e sociale) e dalla precarietà (esistenziale)”[2].

In questo doppio gesto, Fare e disfare il genere LGBTI-butler-zappino-fare-disfare-genere 2(a cura di Federico Zappino, prefazione di Olivia
Guaraldo, Mimesis 2014) restituisce al testo della Butler un senso di processualità che spariva nel precedente titolo tradotto[3]: processualità necessaria ad articolare il discorso sulla precarietà del genere, che stringendo fra loro i concetti di precarietà e genere, appunto, con quello di crisi, li rende operativi e politici. Affermare la precarietà del soggetto, e indicare in esso e nella sua performance di genere il luogo di una crisi, significa infatti riconoscerne anche la potenzialità eversiva, lo statuto perennemente processuale della sua esistenza, che si consolida e decostruisce attraverso l’incessante interazione con altri soggetti e altre strutture. Fare e disfare, per l’appunto.

La costitutiva precarietà del soggetto – e del soggetto queer ancor di più – non si può però definire come direttamente conflittuale rispetto al sistema di governance del capitalismo attuale. “Non necessariamente essere omosessuali coincide, oggi, con l’essere indegni di lutto”[4]: la possibilità di vivere una “buona vita” passa per altri confini, più sfumati che non le sole differenze di genere e di orientamento. Il che non vuol dire che non esista più omo-transfobia, che non esista più sessismo, ma che essi agiscono più sottilmente tra le pieghe del diversity management e del pinkwashing, nella scomposizione della norma eterosessuale e nella riaffermazione del suo dominio attraverso l’inoculazione dei suoi frammenti nei “nuovi soggetti”.

 Da questo punto di vista, particolarmente corretta ci è sembrata l’impostazione del problema che ha dato Olivia Fiorilli in un recente articolo su Commonware[5]. Nel senso indicato da Fiorilli, diventa operazione necessaria “tradire” il dettato di Judith Butler e rilanciarlo – attraverso la stessa autrice – attraverso nuove pratiche e nuovi discorsi formulabili non solo dai soggetti e dai movimenti transfemministi e queer, ma da ogni soggetto o movimento che voglia assumere la lente del queer come potente strumento di lettura per comprendere come agisca una parte dei dispositivi di valorizzazione differenziale approntati dal capitalismo attuale. Allargando dunque il campo, occorre dunque disfare – o disfarsi – agendo sulla propria costitutiva precarietà di soggetti per riconoscere ciò che è messo a valore, giocare oppositivamente la normazione categoriale, sottrarsi al comando neoliberista del godimento normato, e ri-fare e ri-farsi soggetti dove “le maglie del potere” di foucaultiana memoria non tengono: riarticolare una configurazione conflittuale dei soggetti – individuali e collettivi – e rifare, quindi, il genere, l’orientamento e lo stesso soggetto (di classe).

 Su quest’ultimo punto, sulle sfide cioè che si aprono con l’uso degli strumenti dei queer studies per rilanciare nuove forme di soggettivazione, particolarmente importante ci è sembrato il terzo saggio di “Fare e disfare il genere”[6]. Lungi dal costituire un’apologia della precarietà del genere come gioco tutto metaforico e linguistico, “Rendere giustizia a qualcuno” è un saggio nel quale Butler si confronta con la materialità delle pratiche di soggettivazione (e di assoggettamento). David Reimer non è intersessuale, ma è “forzato” alla transessualità, e ad adottare di volta in volta un’identità che non ha scelto. Nelle trasformazioni che riguardano il suo corpo, non ha voce in capitolo. Qui si rivela il punto essenziale almeno del “secondo corso” di Butler: in un corpo a corpo con una visione fuorviante delle teorie “costruzioniste”, la studiosa fa emergere tutta la difficoltà dei percorsi di soggettivazione, e di conseguenza la necessità di preservare, anzitutto, l’agency dei soggetti.

 Nel caso di David Reimer, si vede bene come la precarietà costitutiva del soggetto – e del genere che questo “performa” – non si risolve in un “abito”, da mettere e dismettere con facilità e senza conseguenze, ma piuttosto in un habitus[7], che qui si materializza in una dimensione anche e preponderantemente fisica, col quale è necessario fare i conti. La rivoluzione, insomma, non si impone dall’alto e dall’esterno, come forse i soggetti politici che agiscono attualmente in Italia dovrebbero preoccuparsi di comprendere, anche cogliendo i suggerimenti che provengono in questo momento dalla Spagna e dalla Grecia. Non si può trattare come un dato aprioristico la presa in carico di percorsi di soggettivazione: il ruolo dei soggetti politici attualmente esistenti dev’essere allora quello di promuovere una educazione alle differenze come forme di soggettivazione autonoma, indicare la difficoltà e la fatica della processualità costruttiva del “farsi soggetti” – di desiderio e di classe.

[1] Zappino, Federico, “Il genere, luogo precario. Note a margine”, in Butler, Judith, Undoing gender (London: Routledge, 2004), nuova ed. it. Fare e disfare il genere, a cura di Federico Zappino, prefazione di Olivia Guaraldo (Milano-Udine: Mimesis, 2014), p. 365.
[2] Ibidem, pp. 355-356.
[3] Butler, J., Undoing gender, ed. it. La disfatta del genere, prefazione e cura di Olivia Guaraldo, traduzione di Patrizia Maffezzoli (Roma: Meltemi, 2006).
[4] Zappino, F., “Il genere, luogo precario”, p. 364.
[5] Fiorilli, Olivia, “Butler ai tempi dell’economia della promessa (di riconoscimento)” (19.12.2014), via Commonware, http://commonware.org/index.php/gallery/534-butler-economia-promessa. Data di consultazione: 18.03.2015.
[6] Butler, J., “Rendere giustizia a qualcuno. Riattribuzione del sesso e allegorie della transessualità: un caso”, in Fare e disfare il genere, pp. 107-129.
[7] Per un’introduzione operativa al concetto bourdieusiano di habitus, si consiglia Bourdieu, Pierre, Raisons pratiques. Sur la théorie de l’action (Paris: Seuil, 1994), ed. it. Ragioni pratiche, traduzione di Roberta Ferrara (Bologna: Il Mulino, 20092).

Articolo scritto da:

Authorbox Enrico

Di educazione e “ideologia”

Da un po’ di tempo, nella tranquilla e piovosa Pisa stanno succedendo alcune cose strane: ad ottobre, un gruppo di bizzarr* signor* si è presentato in Piazza dei Cavalieri per vegliare in silenzio, ribadendo così a tutt* che la famiglia naturale, formata dall’unione tra uomo e donna, e ispirata a quella creata da un tale chiamato “Spirito Santo” e una tizia meglio nota come “Madonna”, è l’unica lecita a dimostrare amore verso un’altra persona. Successivamente, menti illuminate hanno pubblicato uno scambio di mail in cui viene attaccata la rete di Educare alle Differenze, recentemente creatasi in città. Contro l’EAD sono state presentate tesi “scientifiche” che dimostrano che i preservativi non proteggono dalle malattie (come la lobby gay ci fa credere da circa 40 anni); si è parlato addirittura di assemblee omosessuali, facendo quindi intendere che anche le assemblee, come dunque i negozi, le riunioni e qualunque altro aggregato umano, possano avere un orientamento sessuale definito e generalizzato. E non finisce qui: ad una conferenza sulla non pervenuta ideologia del gender svoltasi presso la Residenza Toniolo lo scorso 25 febbraio, è seguita la magica¹ calata dal nulla su Piazza dei Miracoli di uno striscione di 600 mq raffigurante un uomo ed una donna che si tengono per mano, con tanto di pargoletti a lato.

Il quadro generale, quindi, secondo quest* signor* (riunit* in vari movimenti ad associazioni) è il seguente: non solo l’Italia, ma il mondo intero, sono dominati da una cricca di omosessuali con manie di potere che cercano di negare il diritto all’esistenza delle modalità di relazione eterosessuali. Tale pericoloso obiettivo verrebbe portato avanti tramite l’imposizione di una ideologia di genere (soprattutto attraverso laboratori di educazione inclusiva nelle scuole) che afferma che tutti e tutte siamo uguali ed abbiamo lo stesso diritto all’esistenza – per l’appunto.

Bene, è il caso di fare chiarezza. L’enciclopedia Treccani definisce il termine “ideologia” come il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale. Si tratta, dunque, di un concetto spesso imposto e volto a cambiare la realtà a proprio uso e consumo. La parola “educazione”, invece, deriva dal latino ex ducere, ovvero tirare fuori. L’educazione è un percorso che ci dà gli strumenti per conoscerci appieno e leggere la realtà in maniera critica e costruttiva. Comporta cambiamento, sì, ma non per noi stess*: si tratta di una cambiamento a favore di una società, almeno per come la intendiamo noi, più equa e inclusiva. Nel nostro caso, i percorsi di Educazione alle Differenze, che appoggiamo e cerchiamo di diffondere il più possibile, parlano di una realtà in cui le differenze che ci rendono unic* non sono più un pretesto per odiare, ma vengono riconosciute come valore aggiunto, che arricchisce l’intera comunità. Pertanto, educare alle differenze significa comprendere e rispettare chi ci circonda per ciò che è e vuole essere, nonché amare noi stess* per come siamo – al di là del nostro sesso biologico d’appartenenza, dell’orientamento sessuale, del colore della pelle, della diversa abilità, dell’origine etnica, del credo religioso. In tal senso, l’educazione alle differenze mira a combattere il fenomeno del bullismo (razzista/sessista/omofobico ecc.) che trova le radici in stereotipi e pregiudizi di ogni tipo: che siano di genere, di orientamento sessuale, di professione religiosa, di diversa abilità, di origine etnica.

Come Queersquilie!, ci rivolgiamo direttamente a voi, car* signor*, costantemente in pericolo per colpa di questa lobby malefica: smettetela di fare disinformazione; iniziate a conoscere davvero ciò che denunciate ed attaccate con tanto fervore. Provate a guardare al di là dei vostri pregiudizi. L’Educazione alle Differenze non è un’ideologia, ma un percorso da fare insieme verso l’accettazione di sé e dell’altr*; non è di stampo omosessuale (anche se, “sfortunatamente”, la difesa dei diritti degli/lle omosessuali ne è parte integrante), bensì combatte tutti i pretesti che spesso abbiamo per dividere e dividerci, invece che comprendere ed includere. Come mai vi sentite così minacciati? Perché diffondere così tanto odio? Ve lo diciamo chiaramente: non vi preoccupate. Disapproviamo nel nostro intimo, e con estrema fermezza, le vostre posizioni; in più, abbiamo coscientemente scelto di non aderire al vostro modo di pensare e di rapportarsi a chi non è della stessa opinione. Perciò, proseguiremo lavorando giorno per giorno per quello in cui crediamo: una società in cui ognun* sia liber* di amare, vestire, giocare, essere ciò che vuole e come vuole. Come diceva qualcuno che dovreste conoscere bene e che vi sta parecchio simpatico: chi sei tu che fai da giudice del tuo prossimo?²

Ah, un’ultima cosa: questo gran sforzo di eventi, conferenze, azioni plateali… Da cosa vi nasce? Di cosa avete paura? Forse a spaventarvi è un mondo in cui le differenze esistono, ma senza distanziarci gli uni dagli altri. Se così fosse concedeteci un finale ironico: pregate, pregate, le streghe son tornate!

Queersquilie! – Collettivo femminista queer

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¹ Non sapendo se qualche autorità abbia autorizzato il gesto, per ora ci piace pensare ad una “magica” apparizione.
² Giacomo, 4

Il giorno in cui ho incontrato Katie Piper

Era una normale giornata di lavoro a Selfridges in un tempo imprecisato tra il 2011 e il 2012. Nel solito mix di clienti indecisi, capi da piegare, telefonate e restocking da fare, la mattinata volgeva al termine. Aspettando impazientemente il mio lunch break, ingannavo il tempo chiacchierando con qualche collega e dando informazioni agli spaesati turisti-clienti in cerca di un’uscita, la toilette, boutiques e concessioni varie. Lavorare in un centro commerciale di Oxford Street (Londra) significa essere immersi in un brulicante divenire di facce, voci, stili, informazioni tali da creare una sovrastimolazione che porta ad un inevitabile automatismo nel gestire le interazioni con il mondo esterno.
Quella mattina, all’ennesimo “Excuse me?”, pervasa, appunto, da questo sentimento di insensibile automatismo, mi voltai svogliata, ma davanti a me non trovai la solita faccia sconosciuta. “Do you know where this brand is?”. Rimasi pietrificata. Letteralmente in preda al panico, come se fosse il 1996 e davanti a me ci fosse uno dei Backstreet  Boys. Mille pensieri che imperversano nella mia testa misti ad ammirazione, imbarazzo, stupore e l’unica cosa che riesco a dire è “It’s over there”, indicando il corridoio alla mia sinistra. Lei, Katie Piper, la donna il cui coraggio mi aveva incuriosito e appassionato tanto da farmi leggere e documentare sulla sua vita per mesi, mi ringrazia sorridente e sparisce nella folla.

Katie Piper, oggi è una donna di grande successo, attivista, scrittrice e presentatrice televisiva molto conosciuta. Ma la sua storia è passata alle cronache perché nel 2008 è stata vittima di un attacco con l’acido solforico ad opera di un uomo ingaggiato dal suo ex-fidanzato che l’ha lasciata sfigurata e le ha fatto perdere la vista da un occhio.

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Katie è una delle tante vittime delle orribili conseguenze che scaturiscono dalla spirale di violenza alimentata dall’idea di donna come oggetto, una proprietà ad uso e consumo dell’uomo. La pratica degli attacchi con l’acido è molto diffusa soprattutto nei paesi dell’Asia meridionale, Pakistan, Bangladesh, Cambogia, India, ma sono stati registrati casi anche in Etiopia, Uganda, Kenya e Sud Africa. Da qui nasce la terribile espressione “ragazze acidificate” per indicare donne rimaste sfigurate con l’acido ad opera dei loro partners, che porteranno i segni della violenza subita sul loro corpo per sempre. In Italia il caso più recente è quello di Lucia Annibali, avvocatessa di Urbino che è stata aggredita e sfigurata con l’acido da due uomini assoldati dall’ex-fidanzato; ad aprile dello scorso anno Lucia ha pubblicato la sua autobiografia dal titolo “Io ci sono”.

La storia di Katie mi ha colpito molto perché rappresenta un bellissimo esempio di coraggio e rivalsa personale che va al di là della violenza di genere e che innesca un dibattito più ampio su come le persone che per svariati motivi hanno un aspetto diverso da quello socialmente accettato, siano sistematicamente rifiutate e discriminate fino a diventare nuovamente vittime di violenza. In un discorso tenuto a una TED conference nel 2011 Katie racconta che durante il suo recupero le persone la trattavamo come se la sua vita fosse finita, anche se era solo il tuo aspetto ad essere stato danneggiato, non il suo cervello o le sue capacità.

“Quando sei bella le persone sono gentili con te: chi ti fa complimenti, chi ti lascia il posto in metropolitana, chi ti apre la porta. Dopo l’attacco invece le persone ti chiedono se sei contagiosa, escono dall’ascensore per evitare qualsiasi contatto, ti cacciano dai negozi; è come sentirsi imprigionati in un corpo che non ti appartiene.”

E’ proprio attraverso queste riflessioni che nel 2009 Katie ha deciso di fondare la Katie Piper Foundation, un’associazione caritatevole che aiuta le persone con cicatrici sfiguranti a sottoporsi a trattamenti specifici per migliorare la loro condizione, riunendo esperti da tutto il mondo per condividere le loro esperienze e conoscenze sulla gestione e sul trattamento delle cicatrici. L’obiettivo è anche quello di fornire un supporto morale che favorisca il benessere psicologico che renda più facile la vita di coloro che vivono con cicatrici sfiguranti e che per questo sono esteticamente diversi rispetto ai canoni socialmente predefiniti. Le storie di alcune delle persone che hanno cambiato la loro vita grazie alla KPF sono narrate nella serie di documentari prodotta da Channel 4  Katie: My Beautiful Friends.

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Il giorno in cui ho incontrato Katie Piper, sebbene fossi già appassionata di questioni di genere, non ho avuto abbastanza coraggio per esprimere la mia ammirazione e ancora oggi ho il timore che la mia espressione esterrefatta la abbia in qualche modo infastidita. In realtà in quei momenti di panico pensavo proprio a quale onore fosse per me averla davanti e a quanto fosse bella, nonostante le cicatrici.

Ogni volta che mi torna in mente quell’episodio, mi sento ancora più fiera di far parte di un collettivo femminista, perché per quanto queste storie sembrino lontane dalla nostra vita quotidiana, di donne come Katie ce ne sono tante, anche nella quieta e benestante città di Pisa. Familiari, amiche, amiche di amiche o conoscenti abusate da mariti, amici, conoscenti, bravi ragazzi che “chi l’avrebbe mai detto”. La violenza di genere è un pensiero costante nella vita di ogni donna, perché se non ne si è vittime, si ha continuamente paura di esserlo. Per questo motivo la società tutta deve prendere atto che si tratta di un problema diffuso contro cui mettere in campo ogni mezzo e strategia, a partire proprio dai gruppi sociali più ristretti nei quali i comportamenti violenti si consolidano e si trasmettono.

Articolo scritto da:

authorbox celine

Ecco come tutto ebbe inizio…

Il 20 gennaio 2015, Queersquilie! ha compiuto il suo primo anno di vita. Un anno di crescita comune, eventi, laboratori ed autocoscienze che ci hanno portato grandi soddisfazioni.

Esattamente da lì, dalle autocoscienze, siamo nat* noi: eravamo innanzitutto un gruppo di amiche (a cui successivamente si è aggiunto qualche “maschietto”) accomunate da un forte interesse per le questioni di genere. In maniera informale, abbiamo passato più di un anno a riunirci la sera per scambiarci materiali e condividendo esperienze e riflessioni. anacletoMeravigliose serate a suon di musica, video postporno e considerazioni a partire dal nostro vissuto e dalla nostra quotidianità ci hanno accompagnat* ed aiutat* nell’autoformazione; finché alcun* di noi hanno avvertito la necessità di concretizzare queste riunioni in qualcosa che avesse un maggior impatto politico.

Il 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ci ritroviamo in piazza, volenterose di iniziare. Da lì, tutto succede velocemente: il concepimento del qollettivo, le basi politiche che gli vogliamo dare, cosa ci proponiamo di fare. Siamo in tant*, ma ancora senza una sede, un luogo, idee precise su come impostare il nostro lavoro futuro.

E’ ormai l’inizio di dicembre, quando alcune di noi – accompagnate da qualche bottiglia di vino rosso – iniziano a pensare a quali potrebbero essere nome e logo del qollettivo. Tra una risata e l’altra, buttiamo giù idee a non finire, invidiose del fatto che ci fossero già state menti geniali a pensare ad un nome come Le Ribellule*… Finché, ad un certo punto, un’immagine ci tuona chiara in testa: “Quisquilie e pinzillacchere!”. Anacleto, il vecchio gufo brontolone compagno di Mago Merlino ne “La spada nella roccia”, ci dà la soluzione! QUEERSQUILIE!, ragazze, Queersquilie!

In una società in cui le questioni di genere sono considerate argomenti di nessuna importanza – quisquilie insomma – noi rivendichiamo il termine, lo facciamo nostro e lo queeriziamo! A chi le considera semplici sciocchezze, noi mostriamo la nostra volontà di cambiamento, le nostre denunce, i corpi attraverso cui agiamo, le voci con cui gridiamo! E così, il 20 gennaio 2014, nasce ufficialmente Queersquilie! – Collettivo Femminista Queer.

A febbraio, si tiene la prima assemblea pubblica. Nemmeno il tempo di entusiasmarsi per la stesura del manifesto che – pouf! – Pisa si riempie di volantini che tuonano “Quello che le donne vogliono!”.

Tadaaan! Il terzo anno consecutivo di una kermesse, patrocinata da niente popò di meno che da comune e provincia, vede una stazione riconvertita ad uso pubblico riempirsi di stand dedicati “alla donna e alle sue passioni”: epilazione, abbronzatura, acconciature, trucco, massaggi, danza, shopping, cucito e, dulcis in fundo, “lezione di femminilità con tacco 12”; il tutto tra cartelloni pubblicitari di modelle senza cellulite, con pelle liscia e levigata e televisori che proiettano sfilate di modelle in costume da bagno. Insomma, l’ennesimo evento farcito di stereotipi a gogò sui desideri femminili!

Quella fu la prima occasione in cui uscire pubblicamente per opporci a quell’immagine avvilente e limitante della donna, coscienti che stavamo soltanto facendo valere quella preziosa legge 16 (di cui la Regione Toscana si è dotata dal 2009) contro gli stereotipi di genere. Fu così che scrivemmo comunicati, organizzammo un presidio e ci trovammo davanti alla stazione Leopolda con striscioni, immagini, slogan che offrivano spunti di riflessione. Nonostante per due giorni di fila siamo state additate come “le femministe che bruciano reggiseni e non si depilano” (e, anche se fosse, non vediamo che male ci sarebbe…), siamo riuscit* a confrontarci con le organizzatrici e con gli organizzatori, spiegando loro che definire certe passioni come caratterizzanti dell’essere donna è scoraggiante non solo per il sesso femminile, ma anche per quello maschile: ricondurre alcune attività ad un genere specifico limita le possibilità di ognun* di costruire la propria identità liberamente. Non sappiamo se realmente abbiano compreso quale fosse la questione, ma siamo coscienti che loro stess* sono vittime di quel sistema capitalista che strumentalizza tutte e tutti noi e che, pertanto, va combattuto.

Poco tempo dopo, organizziamo un seminario in università con Lorella Zanardo sull’educazione e l’immaginario di genere. Tutt* abbiamo visto Il corpo delle donne, siamo rimast* affascinat* ed al tempo stesso schifat* dal modello di donna propinato dai mass media. L’evento accoglie una sessantina di persone. Il dibattito è talmente avvincente e partecipato che solo il custode riesce a interromperlo per mandarci via a causa della chiusura del dipartimento. Questa è la prima volta che ci facciamo notare nella realtà che ci è più vicina: l’università.

Le autocoscienze e la formazione proseguono, finalmente ci prendiamo del tempo per noi, pensiamo ai temi da trattare attraverso conferenze, presentazioni di libri e cineforum. L’anno accademico è ormai quasi finito, quando apprendiamo di un programma televisivo intitolato “Come mi vorrei…”. La solfa è sempre la stessa: ragazze che si sentono inadeguate nella loro vita di tutti i giorni – chi per un motivo, chi per l’altro – vengono aiutate dalla strafiga del momento a cambiare sulla base di come la società le vorrebbe. Lanciamo una campagna locale in cui siamo noi, ragazze e ragazzi, a decidere come ci vorremmo sulla base delle nostre aspirazioni, non di quelle che ci vengono inculcate. Siamo stuf* di essere marionette a cui dire come doversi sentire, cosa dover provare e per chi. Ad ogni forma di eteronormatività ed oppressione imposta, contrapponiamo il nostro diritto all’autodeterminazione!

Nello stesso periodo, l’associazione romana di promozione sociale “Scosse”, portatrice del progetto La scuola fa la differenza, viene attaccata dalle destre cattoliche e omofobe; è la prima volta che sentiamo parlare della non meglio precisata ideologia del gender. Capiamo subito che dobbiamo sostenerle, promuovendo insieme a loro e a tanti altri gruppi l’evento “Educare alle differenze”, tenutosi a Roma il 20 ed il 21 settembre 2014.

Un ottimo inizio del nuovo anno accademico, che ci vede impegnat* su più fronti: portiamo avanti il percorso di Educare alle Differenze nel territorio pisano insieme ad una rete di collettivi ed associazioni, organizziamo un ciclo di cineforum sull’empowerment, riflettiamo sui femminismi nell’era postcoloniale, ci divertiamo e sperimentiamo con un laboratorio sui sex toys a cura di Maia Pedullà, prendiamo posizione contro la veglia delle cosiddette “sentinelle in piedi”…

Le cose da fare sono tante e le questioni da affrontare ancora di più. Gli stereotipi e le forme preconcette da decostruire sembrano non finire mai, eppure non ci diamo per vint*. “Crediamo che la visione dicotomica dei generi, prevalente nella nostra società, non corrisponda alla realtà. Crediamo fermamente nella possibilità di vivere la nostra identità sessuale senza essere costrett* a vestire un’etichetta. Intendiamo il modello queer come approccio teorico e metodo di lotta nella decostruzione della cultura dominante e eteronormativa per la co-costruzione di alternative non ghettizzanti. (…) Quindi… Continuare a sognare, vegliare, monitorare, divulgare, denunciare, lottare, cercare, muoversi, agire; insomma, continuare a pestare i piedi e a opporci su tutte quelle cose che una cultura patriarcale, sessista e eteronormativa vuole che siano, e che rimangano solo, QUISQUILIE”.**

Grazie a voi, che ci avete sostenut* ed incoraggiat* durante quest’anno di lotte quotidiane. Continuate a seguirci per scoprire tutte le sfumature della Q… Stay tuned, STAY QUEER!

Note:
*Collettivo Femminista di Roma, ndr.
**Dal nostro manifesto.

Articolo scritto da:
authorbox aurora

author box Geo