Disfare e fare il genere, l’orientamento, il soggetto, la classe

Le differenze, semmai, vengono sfruttate, come ad esempio nel caso del diversity management; oppure vengono messe al lavoro, in modo paternalistico, in favore di logiche politiche di abuso, se non proprio di sopraffazione e di distruzione, come nel caso del pinkwashing. Benché in entrambi i questi casi emblematici, l’inclusione (simbolica, strumentale) delle differenze all’interno di discorsi finalizzati a creare esclusioni (materiali, politiche) viene esaltata surrettiziamente come istanza di emancipazione, di progresso e di libertà, ciò non deve condurre alla frettolosa conclusione che l’omo-trans-sessuofobia, o il sessismo, o l’eteronormatività siano fenomeni tramontati con il passaggio definitivo dagli Stati-nazione alla governance neoliberale […]. Le forme di discriminazione “culturale” si combinano con quelle “economiche” in nuove forme, decisamente più subdole, su uno sfondo in cui permangono senz’altro tracce residuali delle loro passate configurazioni.[1]

 Pubblicare una nuova traduzione di Undoing Gender (2004) di Judith Butler, ormai diventato un classico degli studi di genere, significa, per Federico Zappino, compiere una doppia operazione: da un lato, riconoscerne il ruolo di pietra miliare, dall’altro – ed è per certi versi un gesto che muove in direzione opposta – restituirlo all’attualità, “a distanza di dieci anni, in un contesto sociale e politico in larga parte mutato; un contesto traversato molto più di allora proprio dalla crisi (economica e sociale) e dalla precarietà (esistenziale)”[2].

In questo doppio gesto, Fare e disfare il genere LGBTI-butler-zappino-fare-disfare-genere 2(a cura di Federico Zappino, prefazione di Olivia
Guaraldo, Mimesis 2014) restituisce al testo della Butler un senso di processualità che spariva nel precedente titolo tradotto[3]: processualità necessaria ad articolare il discorso sulla precarietà del genere, che stringendo fra loro i concetti di precarietà e genere, appunto, con quello di crisi, li rende operativi e politici. Affermare la precarietà del soggetto, e indicare in esso e nella sua performance di genere il luogo di una crisi, significa infatti riconoscerne anche la potenzialità eversiva, lo statuto perennemente processuale della sua esistenza, che si consolida e decostruisce attraverso l’incessante interazione con altri soggetti e altre strutture. Fare e disfare, per l’appunto.

La costitutiva precarietà del soggetto – e del soggetto queer ancor di più – non si può però definire come direttamente conflittuale rispetto al sistema di governance del capitalismo attuale. “Non necessariamente essere omosessuali coincide, oggi, con l’essere indegni di lutto”[4]: la possibilità di vivere una “buona vita” passa per altri confini, più sfumati che non le sole differenze di genere e di orientamento. Il che non vuol dire che non esista più omo-transfobia, che non esista più sessismo, ma che essi agiscono più sottilmente tra le pieghe del diversity management e del pinkwashing, nella scomposizione della norma eterosessuale e nella riaffermazione del suo dominio attraverso l’inoculazione dei suoi frammenti nei “nuovi soggetti”.

 Da questo punto di vista, particolarmente corretta ci è sembrata l’impostazione del problema che ha dato Olivia Fiorilli in un recente articolo su Commonware[5]. Nel senso indicato da Fiorilli, diventa operazione necessaria “tradire” il dettato di Judith Butler e rilanciarlo – attraverso la stessa autrice – attraverso nuove pratiche e nuovi discorsi formulabili non solo dai soggetti e dai movimenti transfemministi e queer, ma da ogni soggetto o movimento che voglia assumere la lente del queer come potente strumento di lettura per comprendere come agisca una parte dei dispositivi di valorizzazione differenziale approntati dal capitalismo attuale. Allargando dunque il campo, occorre dunque disfare – o disfarsi – agendo sulla propria costitutiva precarietà di soggetti per riconoscere ciò che è messo a valore, giocare oppositivamente la normazione categoriale, sottrarsi al comando neoliberista del godimento normato, e ri-fare e ri-farsi soggetti dove “le maglie del potere” di foucaultiana memoria non tengono: riarticolare una configurazione conflittuale dei soggetti – individuali e collettivi – e rifare, quindi, il genere, l’orientamento e lo stesso soggetto (di classe).

 Su quest’ultimo punto, sulle sfide cioè che si aprono con l’uso degli strumenti dei queer studies per rilanciare nuove forme di soggettivazione, particolarmente importante ci è sembrato il terzo saggio di “Fare e disfare il genere”[6]. Lungi dal costituire un’apologia della precarietà del genere come gioco tutto metaforico e linguistico, “Rendere giustizia a qualcuno” è un saggio nel quale Butler si confronta con la materialità delle pratiche di soggettivazione (e di assoggettamento). David Reimer non è intersessuale, ma è “forzato” alla transessualità, e ad adottare di volta in volta un’identità che non ha scelto. Nelle trasformazioni che riguardano il suo corpo, non ha voce in capitolo. Qui si rivela il punto essenziale almeno del “secondo corso” di Butler: in un corpo a corpo con una visione fuorviante delle teorie “costruzioniste”, la studiosa fa emergere tutta la difficoltà dei percorsi di soggettivazione, e di conseguenza la necessità di preservare, anzitutto, l’agency dei soggetti.

 Nel caso di David Reimer, si vede bene come la precarietà costitutiva del soggetto – e del genere che questo “performa” – non si risolve in un “abito”, da mettere e dismettere con facilità e senza conseguenze, ma piuttosto in un habitus[7], che qui si materializza in una dimensione anche e preponderantemente fisica, col quale è necessario fare i conti. La rivoluzione, insomma, non si impone dall’alto e dall’esterno, come forse i soggetti politici che agiscono attualmente in Italia dovrebbero preoccuparsi di comprendere, anche cogliendo i suggerimenti che provengono in questo momento dalla Spagna e dalla Grecia. Non si può trattare come un dato aprioristico la presa in carico di percorsi di soggettivazione: il ruolo dei soggetti politici attualmente esistenti dev’essere allora quello di promuovere una educazione alle differenze come forme di soggettivazione autonoma, indicare la difficoltà e la fatica della processualità costruttiva del “farsi soggetti” – di desiderio e di classe.

[1] Zappino, Federico, “Il genere, luogo precario. Note a margine”, in Butler, Judith, Undoing gender (London: Routledge, 2004), nuova ed. it. Fare e disfare il genere, a cura di Federico Zappino, prefazione di Olivia Guaraldo (Milano-Udine: Mimesis, 2014), p. 365.
[2] Ibidem, pp. 355-356.
[3] Butler, J., Undoing gender, ed. it. La disfatta del genere, prefazione e cura di Olivia Guaraldo, traduzione di Patrizia Maffezzoli (Roma: Meltemi, 2006).
[4] Zappino, F., “Il genere, luogo precario”, p. 364.
[5] Fiorilli, Olivia, “Butler ai tempi dell’economia della promessa (di riconoscimento)” (19.12.2014), via Commonware, http://commonware.org/index.php/gallery/534-butler-economia-promessa. Data di consultazione: 18.03.2015.
[6] Butler, J., “Rendere giustizia a qualcuno. Riattribuzione del sesso e allegorie della transessualità: un caso”, in Fare e disfare il genere, pp. 107-129.
[7] Per un’introduzione operativa al concetto bourdieusiano di habitus, si consiglia Bourdieu, Pierre, Raisons pratiques. Sur la théorie de l’action (Paris: Seuil, 1994), ed. it. Ragioni pratiche, traduzione di Roberta Ferrara (Bologna: Il Mulino, 20092).

Articolo scritto da:

Authorbox Enrico

Un pensiero su “Disfare e fare il genere, l’orientamento, il soggetto, la classe

  1. Conte

    io penso che il genere e l’orientamento sessuale fanno parte del nostro essere persone, disfarli non sia possibile nè auspicabile. Quel che bisogna dire è che esistono infiniti modi di vivere la propria identità do genere maschile o femminile tanti quanti sono gli uomini e le donne nel mondo (e includo anche uomini e donne trans) modi più frequenti statisticamente e meno frequenti ma tutti legittimi

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