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Il giorno in cui ho incontrato Katie Piper

Era una normale giornata di lavoro a Selfridges in un tempo imprecisato tra il 2011 e il 2012. Nel solito mix di clienti indecisi, capi da piegare, telefonate e restocking da fare, la mattinata volgeva al termine. Aspettando impazientemente il mio lunch break, ingannavo il tempo chiacchierando con qualche collega e dando informazioni agli spaesati turisti-clienti in cerca di un’uscita, la toilette, boutiques e concessioni varie. Lavorare in un centro commerciale di Oxford Street (Londra) significa essere immersi in un brulicante divenire di facce, voci, stili, informazioni tali da creare una sovrastimolazione che porta ad un inevitabile automatismo nel gestire le interazioni con il mondo esterno.
Quella mattina, all’ennesimo “Excuse me?”, pervasa, appunto, da questo sentimento di insensibile automatismo, mi voltai svogliata, ma davanti a me non trovai la solita faccia sconosciuta. “Do you know where this brand is?”. Rimasi pietrificata. Letteralmente in preda al panico, come se fosse il 1996 e davanti a me ci fosse uno dei Backstreet  Boys. Mille pensieri che imperversano nella mia testa misti ad ammirazione, imbarazzo, stupore e l’unica cosa che riesco a dire è “It’s over there”, indicando il corridoio alla mia sinistra. Lei, Katie Piper, la donna il cui coraggio mi aveva incuriosito e appassionato tanto da farmi leggere e documentare sulla sua vita per mesi, mi ringrazia sorridente e sparisce nella folla.

Katie Piper, oggi è una donna di grande successo, attivista, scrittrice e presentatrice televisiva molto conosciuta. Ma la sua storia è passata alle cronache perché nel 2008 è stata vittima di un attacco con l’acido solforico ad opera di un uomo ingaggiato dal suo ex-fidanzato che l’ha lasciata sfigurata e le ha fatto perdere la vista da un occhio.

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Katie è una delle tante vittime delle orribili conseguenze che scaturiscono dalla spirale di violenza alimentata dall’idea di donna come oggetto, una proprietà ad uso e consumo dell’uomo. La pratica degli attacchi con l’acido è molto diffusa soprattutto nei paesi dell’Asia meridionale, Pakistan, Bangladesh, Cambogia, India, ma sono stati registrati casi anche in Etiopia, Uganda, Kenya e Sud Africa. Da qui nasce la terribile espressione “ragazze acidificate” per indicare donne rimaste sfigurate con l’acido ad opera dei loro partners, che porteranno i segni della violenza subita sul loro corpo per sempre. In Italia il caso più recente è quello di Lucia Annibali, avvocatessa di Urbino che è stata aggredita e sfigurata con l’acido da due uomini assoldati dall’ex-fidanzato; ad aprile dello scorso anno Lucia ha pubblicato la sua autobiografia dal titolo “Io ci sono”.

La storia di Katie mi ha colpito molto perché rappresenta un bellissimo esempio di coraggio e rivalsa personale che va al di là della violenza di genere e che innesca un dibattito più ampio su come le persone che per svariati motivi hanno un aspetto diverso da quello socialmente accettato, siano sistematicamente rifiutate e discriminate fino a diventare nuovamente vittime di violenza. In un discorso tenuto a una TED conference nel 2011 Katie racconta che durante il suo recupero le persone la trattavamo come se la sua vita fosse finita, anche se era solo il tuo aspetto ad essere stato danneggiato, non il suo cervello o le sue capacità.

“Quando sei bella le persone sono gentili con te: chi ti fa complimenti, chi ti lascia il posto in metropolitana, chi ti apre la porta. Dopo l’attacco invece le persone ti chiedono se sei contagiosa, escono dall’ascensore per evitare qualsiasi contatto, ti cacciano dai negozi; è come sentirsi imprigionati in un corpo che non ti appartiene.”

E’ proprio attraverso queste riflessioni che nel 2009 Katie ha deciso di fondare la Katie Piper Foundation, un’associazione caritatevole che aiuta le persone con cicatrici sfiguranti a sottoporsi a trattamenti specifici per migliorare la loro condizione, riunendo esperti da tutto il mondo per condividere le loro esperienze e conoscenze sulla gestione e sul trattamento delle cicatrici. L’obiettivo è anche quello di fornire un supporto morale che favorisca il benessere psicologico che renda più facile la vita di coloro che vivono con cicatrici sfiguranti e che per questo sono esteticamente diversi rispetto ai canoni socialmente predefiniti. Le storie di alcune delle persone che hanno cambiato la loro vita grazie alla KPF sono narrate nella serie di documentari prodotta da Channel 4  Katie: My Beautiful Friends.

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Il giorno in cui ho incontrato Katie Piper, sebbene fossi già appassionata di questioni di genere, non ho avuto abbastanza coraggio per esprimere la mia ammirazione e ancora oggi ho il timore che la mia espressione esterrefatta la abbia in qualche modo infastidita. In realtà in quei momenti di panico pensavo proprio a quale onore fosse per me averla davanti e a quanto fosse bella, nonostante le cicatrici.

Ogni volta che mi torna in mente quell’episodio, mi sento ancora più fiera di far parte di un collettivo femminista, perché per quanto queste storie sembrino lontane dalla nostra vita quotidiana, di donne come Katie ce ne sono tante, anche nella quieta e benestante città di Pisa. Familiari, amiche, amiche di amiche o conoscenti abusate da mariti, amici, conoscenti, bravi ragazzi che “chi l’avrebbe mai detto”. La violenza di genere è un pensiero costante nella vita di ogni donna, perché se non ne si è vittime, si ha continuamente paura di esserlo. Per questo motivo la società tutta deve prendere atto che si tratta di un problema diffuso contro cui mettere in campo ogni mezzo e strategia, a partire proprio dai gruppi sociali più ristretti nei quali i comportamenti violenti si consolidano e si trasmettono.

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