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Dall’estetica alla libertà, pensieri e opere in transizione. Intervista a Micol Servello.

Qualche settimana fa sono capitata per caso ad una mostra di una giovane artista che mi ha molto colpito, sia per la spontaneità che ho percepito osservando i quadri esposti, sia per i soggetti raffigurati in di molti di essi: le donne. Poiché da sempre ho un debole per l’arte e per le questioni di genere, senza troppi giri di parole, le ho chiesto se potevo intervistarla e lei ha accettato.
L’artista in questione è Micol Servello, ha 22 anni, vive ad Asciano (Pisa) e studia Grafica all’Accademia delle Belle Arti di Firenze.

Raccontaci quando, come hai iniziato e perché.
Innanzitutto devo precisare che fin da piccola avevo la passione per il disegno, disegnavo sempre. Ovviamente ogni bambino lo fa, ma io ero particolarmente brava e all’ìnizio non credevo diventasse quella che spero sarà la mia “strada” o comunque la passione che mi accompagnerà sempre. Forse l’unica persona ad accorgersi delle mie abilità (a parte i miei genitori – a 4 anni disegnavo meglio di loro) ed a spronarmi fin da subito fu il mio nonno. Per vari motivi nella scelta della scuola fui indirizzata dai miei (uno scientifico), fatto che mi ha tarpato le ali e ha fatto sì che nei momenti di maggior noia e sconforto leggessi e disegnassi in modo alienante (odiavo la maggior parte del tempo a scuola). Ma nonostante la mia dote naturale, detestavo i miei disegni, infatti li regalavo tutti.

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Terrore Chiocciole, 2012, penna BIC su carta

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Scarabeo Rinoceronte, 2013, incisione a punta secca

Sono capitata alla tua mostra per puro caso e sono rimasta da subito piacevolmente colpita nel vedere che molti dei soggetti delle tue opere sono donne. Quali sono i concetti che vuoi trasmettere e perchè hai scelto di farlo tramite l’arte?
Inizialmente la scelta di disegnare solo donne non aveva scopi precisi, lo facevo e lo faccio perché amo la fisionomia femminile: penso che il corpo femminile sia il fulcro del concetto estetico per eccellenza, così come la nostra forza psicologica. Trovo che sia bello disegnare le curve femminili e quando lo faccio quasi mi impersonifico in ciò che disegno, non provo lo stesso piacere quando disegno corpi maschili. Credo però che dovrei cercare di evolvere la mia arte e trovare una sorta di significato che magari per ora esiste solo a livello inconscio e soggettivo.

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Maternità, penna BIC con sfondo ad acquarello

Quindi ti piace disegnare il corpo femminile per una questione principalmente estetica, però nei tuoi quaderni ho visto anche ritratti di donne ferite, con ematomi ed altri segni di violenza. Perché hai scelto di ritrarre le donne anche sotto questa particolare e drammatica luce?
Sì.  Per quei disegni mi avevano assegnato un tema particolare, quello della follia. Quindi ho deciso di ritrarre donne vittime sia di violenze carnali sia di stereotipi, ad esempio donne malate di anoressia, vittime inconsapevoli della società in generale. Ho disegnato anche donne senza occhi o con la bocca cucita, con le quali volevo rappresentare il meccanismo psicologico che purtroppo colpisce spesso le donne vittime di violenza tramite il quale si cerca, fin dove è possibile, di “non vedere” e di non esprimere a voce alta la propria infelicità, probabilmente per non renderla reale.

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Senza Titolo, matrice xilografica

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Fingere di non vedere, matrice xilografica

Ci sono molte artiste provenienti da tutto il mondo che utilizzano l’arte sia come strumento di denuncia, ad esempio Tatyana Fazlalizadeh e la sua lotta allo street harrasment, sia per diffondere messaggi di empowerment  femminile allo scopo di superare la concezione stereotipica di donna, come nel caso di Carol Rossetti. Tu ritieni che l’arte possa davvero veicolare dei messaggi che la società si dimostra generalmente riluttante ad accettare?
Certo, io penso che l’arte possa trasmettere molti messaggi che magari altri canali non riescono a comunicare con la stessa intensità. C’è da dire però che se la società e le menti delle persone rimangono chiuse, l’arte (come la letteratura, ecc… ) non può fare miracoli. I primi a dover voler fruire e magari vedere da un diverso punto di vista qualsiasi concetto o tematica, siamo noi stessi.

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Maschera, penna BIC, matita e pennarello

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Autoritratto, acquaforte con collage di applicazioni cartacee

Ci sono degli artisti o degli stili a cui ti ispiri particolarmente o che hanno in qualche modo segnato il tuo percorso artistico?
Mi piacciono molte cose diverse, molti autori di epoche disparate. Mi affascina un Klimt, come mi diverte un Banksy e via dicendo. Non ho, per adesso, un autore o un movimento “preferiti”, almeno non consapevolmente. Inoltre mi ritengo abbastanza ignorante in campo di storia dell’arte. Mea culpa!

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Blue is the warmest color, acquarelli, pennarelli e uniposca

Hai in programma altre mostre nei prossimi mesi?
Per adesso no, niente di programmato. Ma spero di poter riorganizzare qualcosa con l’aiuto del circolo Arci Asciano, e poi, chissà!

Se tu potessi mettere in parole uno dei tuoi quadri, che cosa griderebbe al mondo?
Un mio quadro griderebbe al mondo che non dobbiamo mai dimenticare la nostra dimensione di “donne selvagge”. Questa espressione è tratta da un libro che si intitola “Donne che corrono coi lupi”, che parla di come l’archetipo della figura femminile sia mutato nel tempo a causa dell’influenza della società, e che analizza i miti e le favole con le quali siamo cresciuti in chiave psicologica. Dei limiti li avremo sempre, siamo nate in un epoca dove è impossibile essere davvero “libere”, ma almeno dobbiamo TENDERE ALLA LIBERTÀ.

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Ispirazione Orientale, china e acquarello su tela

 

Articolo scritto da:

authorbox celine

Disfare e fare il genere, l’orientamento, il soggetto, la classe

Le differenze, semmai, vengono sfruttate, come ad esempio nel caso del diversity management; oppure vengono messe al lavoro, in modo paternalistico, in favore di logiche politiche di abuso, se non proprio di sopraffazione e di distruzione, come nel caso del pinkwashing. Benché in entrambi i questi casi emblematici, l’inclusione (simbolica, strumentale) delle differenze all’interno di discorsi finalizzati a creare esclusioni (materiali, politiche) viene esaltata surrettiziamente come istanza di emancipazione, di progresso e di libertà, ciò non deve condurre alla frettolosa conclusione che l’omo-trans-sessuofobia, o il sessismo, o l’eteronormatività siano fenomeni tramontati con il passaggio definitivo dagli Stati-nazione alla governance neoliberale […]. Le forme di discriminazione “culturale” si combinano con quelle “economiche” in nuove forme, decisamente più subdole, su uno sfondo in cui permangono senz’altro tracce residuali delle loro passate configurazioni.[1]

 Pubblicare una nuova traduzione di Undoing Gender (2004) di Judith Butler, ormai diventato un classico degli studi di genere, significa, per Federico Zappino, compiere una doppia operazione: da un lato, riconoscerne il ruolo di pietra miliare, dall’altro – ed è per certi versi un gesto che muove in direzione opposta – restituirlo all’attualità, “a distanza di dieci anni, in un contesto sociale e politico in larga parte mutato; un contesto traversato molto più di allora proprio dalla crisi (economica e sociale) e dalla precarietà (esistenziale)”[2].

In questo doppio gesto, Fare e disfare il genere LGBTI-butler-zappino-fare-disfare-genere 2(a cura di Federico Zappino, prefazione di Olivia
Guaraldo, Mimesis 2014) restituisce al testo della Butler un senso di processualità che spariva nel precedente titolo tradotto[3]: processualità necessaria ad articolare il discorso sulla precarietà del genere, che stringendo fra loro i concetti di precarietà e genere, appunto, con quello di crisi, li rende operativi e politici. Affermare la precarietà del soggetto, e indicare in esso e nella sua performance di genere il luogo di una crisi, significa infatti riconoscerne anche la potenzialità eversiva, lo statuto perennemente processuale della sua esistenza, che si consolida e decostruisce attraverso l’incessante interazione con altri soggetti e altre strutture. Fare e disfare, per l’appunto.

La costitutiva precarietà del soggetto – e del soggetto queer ancor di più – non si può però definire come direttamente conflittuale rispetto al sistema di governance del capitalismo attuale. “Non necessariamente essere omosessuali coincide, oggi, con l’essere indegni di lutto”[4]: la possibilità di vivere una “buona vita” passa per altri confini, più sfumati che non le sole differenze di genere e di orientamento. Il che non vuol dire che non esista più omo-transfobia, che non esista più sessismo, ma che essi agiscono più sottilmente tra le pieghe del diversity management e del pinkwashing, nella scomposizione della norma eterosessuale e nella riaffermazione del suo dominio attraverso l’inoculazione dei suoi frammenti nei “nuovi soggetti”.

 Da questo punto di vista, particolarmente corretta ci è sembrata l’impostazione del problema che ha dato Olivia Fiorilli in un recente articolo su Commonware[5]. Nel senso indicato da Fiorilli, diventa operazione necessaria “tradire” il dettato di Judith Butler e rilanciarlo – attraverso la stessa autrice – attraverso nuove pratiche e nuovi discorsi formulabili non solo dai soggetti e dai movimenti transfemministi e queer, ma da ogni soggetto o movimento che voglia assumere la lente del queer come potente strumento di lettura per comprendere come agisca una parte dei dispositivi di valorizzazione differenziale approntati dal capitalismo attuale. Allargando dunque il campo, occorre dunque disfare – o disfarsi – agendo sulla propria costitutiva precarietà di soggetti per riconoscere ciò che è messo a valore, giocare oppositivamente la normazione categoriale, sottrarsi al comando neoliberista del godimento normato, e ri-fare e ri-farsi soggetti dove “le maglie del potere” di foucaultiana memoria non tengono: riarticolare una configurazione conflittuale dei soggetti – individuali e collettivi – e rifare, quindi, il genere, l’orientamento e lo stesso soggetto (di classe).

 Su quest’ultimo punto, sulle sfide cioè che si aprono con l’uso degli strumenti dei queer studies per rilanciare nuove forme di soggettivazione, particolarmente importante ci è sembrato il terzo saggio di “Fare e disfare il genere”[6]. Lungi dal costituire un’apologia della precarietà del genere come gioco tutto metaforico e linguistico, “Rendere giustizia a qualcuno” è un saggio nel quale Butler si confronta con la materialità delle pratiche di soggettivazione (e di assoggettamento). David Reimer non è intersessuale, ma è “forzato” alla transessualità, e ad adottare di volta in volta un’identità che non ha scelto. Nelle trasformazioni che riguardano il suo corpo, non ha voce in capitolo. Qui si rivela il punto essenziale almeno del “secondo corso” di Butler: in un corpo a corpo con una visione fuorviante delle teorie “costruzioniste”, la studiosa fa emergere tutta la difficoltà dei percorsi di soggettivazione, e di conseguenza la necessità di preservare, anzitutto, l’agency dei soggetti.

 Nel caso di David Reimer, si vede bene come la precarietà costitutiva del soggetto – e del genere che questo “performa” – non si risolve in un “abito”, da mettere e dismettere con facilità e senza conseguenze, ma piuttosto in un habitus[7], che qui si materializza in una dimensione anche e preponderantemente fisica, col quale è necessario fare i conti. La rivoluzione, insomma, non si impone dall’alto e dall’esterno, come forse i soggetti politici che agiscono attualmente in Italia dovrebbero preoccuparsi di comprendere, anche cogliendo i suggerimenti che provengono in questo momento dalla Spagna e dalla Grecia. Non si può trattare come un dato aprioristico la presa in carico di percorsi di soggettivazione: il ruolo dei soggetti politici attualmente esistenti dev’essere allora quello di promuovere una educazione alle differenze come forme di soggettivazione autonoma, indicare la difficoltà e la fatica della processualità costruttiva del “farsi soggetti” – di desiderio e di classe.

[1] Zappino, Federico, “Il genere, luogo precario. Note a margine”, in Butler, Judith, Undoing gender (London: Routledge, 2004), nuova ed. it. Fare e disfare il genere, a cura di Federico Zappino, prefazione di Olivia Guaraldo (Milano-Udine: Mimesis, 2014), p. 365.
[2] Ibidem, pp. 355-356.
[3] Butler, J., Undoing gender, ed. it. La disfatta del genere, prefazione e cura di Olivia Guaraldo, traduzione di Patrizia Maffezzoli (Roma: Meltemi, 2006).
[4] Zappino, F., “Il genere, luogo precario”, p. 364.
[5] Fiorilli, Olivia, “Butler ai tempi dell’economia della promessa (di riconoscimento)” (19.12.2014), via Commonware, http://commonware.org/index.php/gallery/534-butler-economia-promessa. Data di consultazione: 18.03.2015.
[6] Butler, J., “Rendere giustizia a qualcuno. Riattribuzione del sesso e allegorie della transessualità: un caso”, in Fare e disfare il genere, pp. 107-129.
[7] Per un’introduzione operativa al concetto bourdieusiano di habitus, si consiglia Bourdieu, Pierre, Raisons pratiques. Sur la théorie de l’action (Paris: Seuil, 1994), ed. it. Ragioni pratiche, traduzione di Roberta Ferrara (Bologna: Il Mulino, 20092).

Articolo scritto da:

Authorbox Enrico