Una gringa in Perù, tra curiosità e machismo.

Quella che segue non vuole essere una descrizione oggettiva della realtà femminile peruana e dei rapporti di potere tra uomini e donne, bensì il racconto della mia personale esperienza di unica “bianca” in un piccolo paesino delle Ande.

“Hola gringa!”
“Como?”
“Ti ha detto ‘hola gringa’…”
“Ho capito perfettamente cosa mi ha detto, grazie… Ma perché dovrebbe avermi detto una cosa del genere?”
“Aurora… Guardati intorno! Sei bianca, l’unica bianca nel raggio di un centinaio di metri, forse anche di più. E’ normale, sei una gringa e tutti ti guardano. E’ il sogno di un po’ tutti stare con una come te.”
“Per ‘una come me’ intendi… Un’europea? Una dalla pelle chiara?”
“Certo, una dalla pelle chiara…”

Gringo è una parola prettamente sudamericana, usata per riferirsi a stranieri o straniere che siano, soprattutto se dalla pelle chiara. Le origini del termine non sono accertate: c’è chi dice che sia stato coniato per designare coloro che parlavano una lingua incomprensibile, e chi invece che derivi dall’inglese “Green go away”, frase riferita ai militari statunitensi le cui uniformi verdi hanno invaso e contribuito a lacerare non pochi stati dell’America Latina.

Beh, per la prima volta nella vita – devo ammetterlo – mi sono sentita una gringa, una straniera, una privilegiata per la valuta che ha in tasca e l’origine del suo passaporto. Una mosca bianca in un fiume di curiosità, violenza e machismo.

Mi trovo nel secondo paese latinoamericano per numero di femicidi[1] dopo la Colombia[2], decessi che rappresentano solo la fase estrema di una serie di violenze che coinvolgono dal 50 al 60% delle donne peruviane[3]. In particolare, il Surandino[4], a causa di un insieme di fattori sociopolitici ed economici che, nel corso del tempo, ne hanno fatto una delle zone più remote e dimenticate dal governo, nel 2013 si è qualificato con uno dei più alti tassi di violenza domestica di tutto il paese. E la violenza, qui, si vede.

Ne soffrono donne e bambini che la subiscono, ma ne soffrono anche coloro che la perpetrano. Si tratta di una violenza molto forte e radicata in una società cattolica e tradizionalista, in cui i ruoli di genere sono decisamente assegnati fin dalla nascita. E guai a chi cerca di uscirne. Le donne hanno tutte, e dico tutte, i capelli lunghi, perché “solo la donna con i capelli lunghi è una bella donna”. Aspettano ansiose i loro mariti, conviventi, fratelli, padri a casa, perché “il compito di una donna è quello di cucinare per chi la ama e la protegge”. Non escono sole la sera, non solo per il rischio di subire molestie, ma perché “non sta bene. Che ci va a fare in giro una donna da sola?”. Gli uomini, invece, non possono piangere. “E’ da checca!”. E non possono mostrare affetto. “E’ da deboli!”. Devono essere bravi a giocare a calcio e farsi avanti con le ragazze. Ovviamente, l’omosessualità non esiste. Esattamente come la sessualità femminile, che viene negata in maniera categorica. Una donna può avere un uomo ed un solo uomo nella sua vita. Viene picchiata, lasciata, abbandonata con la prole? Rinuncia a se stessa e non esiste più.

Senza titolo1Piangere non ti rende meno uomo. Il coraggioso non è violento Perù [5]

 

Per me bianca, invece, le cose possono essere un po’ diverse. Io merito rispetto per il posto da cui provengo e perché, a quanto pare, rappresento il sogno proibito di molti uomini. Già… A me si avvicinano in tanti, sono gentili, mi offrono da bere. Cercano di parlarmi e di corteggiarmi, ma il tutto viene fatto in maniera apparentemente più rispettosa di come si comportano con le ragazze del posto. Eppure… L’ombra del machismo si rivela poco dopo: “E se ti dicessi che sono lesbica?” “Tu non puoi essere lesbica, sei bella… E, poi, le lesbiche esistono solo nei film porno!”.

(Una bella donna è colei che lotta)

Già… In una società patriarcale e binaria, in cui ognun* sa esattamente cosa ci si aspetta dal sesso che gli/le è stato assegnato alla nascita, non c’è spazio per il dissenso: l’uomo domina (o crede di dominare, ma è a sua volta soggiogato da regole di comportamento che lo strangolano poco a poco), la donna si fa bella, sorride ed ubbidisce (e, a volte, viene strangolata sul serio… Ma questo conta poco). Io, europea ed “emancipata”, è normale faccia un po’ i capricci. Ma su, ammettilo, in fondo in fondo piace anche a te che ti riempiano di attenzioni. Farai un po’ la dura, sì, ma questa è la tua natura, non lo puoi negare. Voi donne siete così… Potrai anche non voler stare con me, ma di certo non per una ragazza. Le lesbiche non esistono, ricordi?

(Il patriarcato fotte tutt*)

(Il patriarcato fotte tutt*)

Alle volte si girano a guardare il ragazzo che mi accompagna: ha origini inca, è scuro e con i tipici occhi a mandorla. Perché io, bianca, perdo il mio tempo con lui – lui che non vale niente? Data la mia importanza, dovrei piuttosto cercarmene uno dalla pelle chiara e dai lineamenti fini. Uno che mi sappia far sentire donna per davvero.

Ed è così che, spesso ormai, penso a quanto la teoria dell’intersezionalità [6] sia fondamentale per lottare contro ogni tipo di ingiustizia: sessismo, omofobia, razzismo, classismo vanno di pari passo e si fomentano, non sono fenomeni a sé stanti, bensì differenti facce della stessa medaglia che imprigiona tutte e tutti. Noi, femministe europee e privilegiate, non dobbiamo dimenticarcene mai per non commettere l’errore di pensare che la nostra lotta sia solo nostra, o che i nostri metodi sono quelli “giusti”. Siamo in tante e tanti, nel mondo, a soffrire a causa di etichette che ci impediscono di vivere come vorremmo. Uniamoci e combattiamo per una società in cui le persone vengano prima. Prima del nostro colore della pelle, del sesso biologico che c’è stato assegnato, dell’orientamento sessuale, del reddito annuo della nostra famiglia.

Questo, tra le tante altre cose, mi sta insegnando un Perù diverso da come me l’immaginavo, eppure paradossalmente così simile a come l’avrei voluto.

Senza titolo4

Note:
[1]
Con il termine femicidio s’intende l’uccisione di donne per mano di uomini per motivi di genere, cioè in quanto donne. Il concetto è stato coniato da Diana Russell, femminista, sociologa e criminologa statunitense, per svelare la natura sociale delle uccisioni di donne all’interno di una cultura patriarcale, in cui la morte rappresenta l’esito e la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine. Il termine femicide è stato tradotto in italiano con femminicidio, collegato etimologicamente a “femmina”, mentre femicidio, con una “m”, riporterebbe immediatamente alla nozione di omicidio, ma di donne. Il termine è stato introdotto in Italia dalla Casa delle Donne per non subire violenza di Bologna nel 2006.
[2] Dati riportati nel 2014 dalla Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi.
[3] Ovviamente, i dati governativi riportano stime molto più basse. Ma noi attiviste non ci fidiamo di chi conta solamente il numero di denunce effettuate presso le stazioni di polizia, vero? Sappiamo bene che la maggior parte delle violenze non vengono nemmeno riconosciute da chi le subisce… La prima violenza è farci credere che non sia violenza.
[4] E’ questa la denominazione attribuita alla zona delle Ande del Sud.
[5] Campagna di sensibilizzazione lanciata dall’ONU nel 2013 al fine di coinvolgere gli uomini nella lotta alla violenza di genere.
Per maggiori info, visitate la pagina FB: https://www.facebook.com/elvalientenoesviolento/timeline
[6] Il concetto d’intersezionalità emerge dalla politica femminista nera verso la fine degli anni ’70 e gli inizi degli ’80, allo scopo di mostrare come categorie e posizioni sociali quali genere, etnia e classe interagiscono e si sovrappongono, producendo ineguaglianze sociali sistemiche. Successivamente, lo stesso concetto fu ampliato per includere concezioni sociali come nazione, abilità, sessualità, età. In tal senso, l’intersezionalità ci offre una lente attraverso cui osservare tali categorie nella costituzione di processi mutuali e di relazioni sociali, che spesso si concretizzano in una serie di discriminazioni correlate tra di loro.

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