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Street harassment, molestie di strada, piropos: impariamo a chiamare le cose con il loro nome.

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Traduzione: – Essere una ragazza e divertente e tutto, ma devo assolutamente finire il mio libro – Hey bella! Le giro io le pagine del tuo libro! – Dannazione! – Non dovrei essere sexy ora… – Hey bella! Voglio spiumacciare il tuo piumino! – Ora voglio vedere se qualcuno mi infastidisce…. – Hey bella! Non hai caldo con quel costume?!

Chiamare le cose con il proprio nome è un modo per riconoscerle, definirle, dargli un senso e una collocazione. In Italia, nonostante la ricchezza e la versatilità del nostro linguaggio, non esistono termini per definire alcuni fenomeni che affliggono determinate categorie di persone, perciò vengono utilizzati vocaboli propri di altre lingue, come nel caso di “stalking” o “mobbing” (parole che dicono molto poco a chiunque non conosca la lingua inglese).

Esistono invece altri fatti e situazioni ai quali non viene neanche attribuito un nome, nonostante abbiano un notevole impatto sulla vita di molt* individu*. In particolare ci riferiamo ad un fenomeno molto diffuso che la maggior parte delle persone di sesso femminile, è quotidianamente costretta a subire: commenti sgradevoli, sguardi insistenti, occhiolini, fischi fino ad arrivare alle cosiddette “palpatine”.

La lingua inglese chiama questo fenomeno “street harassment” ovvero molestie di strada, quella francese “harcèlement de rue”, in quella spagnola e  quella portoghese – sotto la categoria delle molestie sessuali –  troviamo i “piropos”. Tuttavia, se in epoche passate questo termine significava principalmente galanteria, al giorno d’oggi il confine tra complimento e molestia è molto labile.

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Dunque, se tutte le lingue più parlate nel mondo hanno svariati vocaboli per definire questo fenomeno, perché una lingua dalle solide e ampie radici come quella italiana non contempla l’esistenza di questi termini?
L’espressione che più si avvicina a quelle sopra citate è  “molestia”, parola con un campo semantico così ampio che utilizzarla ha l’effetto di sminuire il fenomeno invece di attribuirgli importanza, poiché comparato con la gravità delle altre numerose tipologie di molestie sessuali. Infatti con  “street harassment” si fa’ riferimento alle molestie subite per strada, luogo in cui si è indifese e vulnerabili, alla mercé del sessismo più spietato.

Come collettivo femminista queer crediamo che ci sia una tendenza nel nostro paese a non nominare ciò di cui non si vuole ammettere l’esistenza, soprattutto per quanto riguarda la violenza di genere e le sue sottili sfumature. Come la psicologia ci insegna, quando si ha un problema è necessario prima individuarlo e identificarlo – chiamandolo con il proprio nome – per poi trovare possibili soluzioni. Per questo pensiamo che attribuire una terminologia precisa, adeguata e, soprattutto, familiare sia fondamentale per identificare e condannare piaghe sociali come le “molestie di strada”.

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authorbox celine

 

Dall’estetica alla libertà, pensieri e opere in transizione. Intervista a Micol Servello.

Qualche settimana fa sono capitata per caso ad una mostra di una giovane artista che mi ha molto colpito, sia per la spontaneità che ho percepito osservando i quadri esposti, sia per i soggetti raffigurati in di molti di essi: le donne. Poiché da sempre ho un debole per l’arte e per le questioni di genere, senza troppi giri di parole, le ho chiesto se potevo intervistarla e lei ha accettato.
L’artista in questione è Micol Servello, ha 22 anni, vive ad Asciano (Pisa) e studia Grafica all’Accademia delle Belle Arti di Firenze.

Raccontaci quando, come hai iniziato e perché.
Innanzitutto devo precisare che fin da piccola avevo la passione per il disegno, disegnavo sempre. Ovviamente ogni bambino lo fa, ma io ero particolarmente brava e all’ìnizio non credevo diventasse quella che spero sarà la mia “strada” o comunque la passione che mi accompagnerà sempre. Forse l’unica persona ad accorgersi delle mie abilità (a parte i miei genitori – a 4 anni disegnavo meglio di loro) ed a spronarmi fin da subito fu il mio nonno. Per vari motivi nella scelta della scuola fui indirizzata dai miei (uno scientifico), fatto che mi ha tarpato le ali e ha fatto sì che nei momenti di maggior noia e sconforto leggessi e disegnassi in modo alienante (odiavo la maggior parte del tempo a scuola). Ma nonostante la mia dote naturale, detestavo i miei disegni, infatti li regalavo tutti.

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Terrore Chiocciole, 2012, penna BIC su carta

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Scarabeo Rinoceronte, 2013, incisione a punta secca

Sono capitata alla tua mostra per puro caso e sono rimasta da subito piacevolmente colpita nel vedere che molti dei soggetti delle tue opere sono donne. Quali sono i concetti che vuoi trasmettere e perchè hai scelto di farlo tramite l’arte?
Inizialmente la scelta di disegnare solo donne non aveva scopi precisi, lo facevo e lo faccio perché amo la fisionomia femminile: penso che il corpo femminile sia il fulcro del concetto estetico per eccellenza, così come la nostra forza psicologica. Trovo che sia bello disegnare le curve femminili e quando lo faccio quasi mi impersonifico in ciò che disegno, non provo lo stesso piacere quando disegno corpi maschili. Credo però che dovrei cercare di evolvere la mia arte e trovare una sorta di significato che magari per ora esiste solo a livello inconscio e soggettivo.

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Maternità, penna BIC con sfondo ad acquarello

Quindi ti piace disegnare il corpo femminile per una questione principalmente estetica, però nei tuoi quaderni ho visto anche ritratti di donne ferite, con ematomi ed altri segni di violenza. Perché hai scelto di ritrarre le donne anche sotto questa particolare e drammatica luce?
Sì.  Per quei disegni mi avevano assegnato un tema particolare, quello della follia. Quindi ho deciso di ritrarre donne vittime sia di violenze carnali sia di stereotipi, ad esempio donne malate di anoressia, vittime inconsapevoli della società in generale. Ho disegnato anche donne senza occhi o con la bocca cucita, con le quali volevo rappresentare il meccanismo psicologico che purtroppo colpisce spesso le donne vittime di violenza tramite il quale si cerca, fin dove è possibile, di “non vedere” e di non esprimere a voce alta la propria infelicità, probabilmente per non renderla reale.

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Senza Titolo, matrice xilografica

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Fingere di non vedere, matrice xilografica

Ci sono molte artiste provenienti da tutto il mondo che utilizzano l’arte sia come strumento di denuncia, ad esempio Tatyana Fazlalizadeh e la sua lotta allo street harrasment, sia per diffondere messaggi di empowerment  femminile allo scopo di superare la concezione stereotipica di donna, come nel caso di Carol Rossetti. Tu ritieni che l’arte possa davvero veicolare dei messaggi che la società si dimostra generalmente riluttante ad accettare?
Certo, io penso che l’arte possa trasmettere molti messaggi che magari altri canali non riescono a comunicare con la stessa intensità. C’è da dire però che se la società e le menti delle persone rimangono chiuse, l’arte (come la letteratura, ecc… ) non può fare miracoli. I primi a dover voler fruire e magari vedere da un diverso punto di vista qualsiasi concetto o tematica, siamo noi stessi.

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Maschera, penna BIC, matita e pennarello

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Autoritratto, acquaforte con collage di applicazioni cartacee

Ci sono degli artisti o degli stili a cui ti ispiri particolarmente o che hanno in qualche modo segnato il tuo percorso artistico?
Mi piacciono molte cose diverse, molti autori di epoche disparate. Mi affascina un Klimt, come mi diverte un Banksy e via dicendo. Non ho, per adesso, un autore o un movimento “preferiti”, almeno non consapevolmente. Inoltre mi ritengo abbastanza ignorante in campo di storia dell’arte. Mea culpa!

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Blue is the warmest color, acquarelli, pennarelli e uniposca

Hai in programma altre mostre nei prossimi mesi?
Per adesso no, niente di programmato. Ma spero di poter riorganizzare qualcosa con l’aiuto del circolo Arci Asciano, e poi, chissà!

Se tu potessi mettere in parole uno dei tuoi quadri, che cosa griderebbe al mondo?
Un mio quadro griderebbe al mondo che non dobbiamo mai dimenticare la nostra dimensione di “donne selvagge”. Questa espressione è tratta da un libro che si intitola “Donne che corrono coi lupi”, che parla di come l’archetipo della figura femminile sia mutato nel tempo a causa dell’influenza della società, e che analizza i miti e le favole con le quali siamo cresciuti in chiave psicologica. Dei limiti li avremo sempre, siamo nate in un epoca dove è impossibile essere davvero “libere”, ma almeno dobbiamo TENDERE ALLA LIBERTÀ.

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Ispirazione Orientale, china e acquarello su tela

 

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authorbox celine

Disfare e fare il genere, l’orientamento, il soggetto, la classe

Le differenze, semmai, vengono sfruttate, come ad esempio nel caso del diversity management; oppure vengono messe al lavoro, in modo paternalistico, in favore di logiche politiche di abuso, se non proprio di sopraffazione e di distruzione, come nel caso del pinkwashing. Benché in entrambi i questi casi emblematici, l’inclusione (simbolica, strumentale) delle differenze all’interno di discorsi finalizzati a creare esclusioni (materiali, politiche) viene esaltata surrettiziamente come istanza di emancipazione, di progresso e di libertà, ciò non deve condurre alla frettolosa conclusione che l’omo-trans-sessuofobia, o il sessismo, o l’eteronormatività siano fenomeni tramontati con il passaggio definitivo dagli Stati-nazione alla governance neoliberale […]. Le forme di discriminazione “culturale” si combinano con quelle “economiche” in nuove forme, decisamente più subdole, su uno sfondo in cui permangono senz’altro tracce residuali delle loro passate configurazioni.[1]

 Pubblicare una nuova traduzione di Undoing Gender (2004) di Judith Butler, ormai diventato un classico degli studi di genere, significa, per Federico Zappino, compiere una doppia operazione: da un lato, riconoscerne il ruolo di pietra miliare, dall’altro – ed è per certi versi un gesto che muove in direzione opposta – restituirlo all’attualità, “a distanza di dieci anni, in un contesto sociale e politico in larga parte mutato; un contesto traversato molto più di allora proprio dalla crisi (economica e sociale) e dalla precarietà (esistenziale)”[2].

In questo doppio gesto, Fare e disfare il genere LGBTI-butler-zappino-fare-disfare-genere 2(a cura di Federico Zappino, prefazione di Olivia
Guaraldo, Mimesis 2014) restituisce al testo della Butler un senso di processualità che spariva nel precedente titolo tradotto[3]: processualità necessaria ad articolare il discorso sulla precarietà del genere, che stringendo fra loro i concetti di precarietà e genere, appunto, con quello di crisi, li rende operativi e politici. Affermare la precarietà del soggetto, e indicare in esso e nella sua performance di genere il luogo di una crisi, significa infatti riconoscerne anche la potenzialità eversiva, lo statuto perennemente processuale della sua esistenza, che si consolida e decostruisce attraverso l’incessante interazione con altri soggetti e altre strutture. Fare e disfare, per l’appunto.

La costitutiva precarietà del soggetto – e del soggetto queer ancor di più – non si può però definire come direttamente conflittuale rispetto al sistema di governance del capitalismo attuale. “Non necessariamente essere omosessuali coincide, oggi, con l’essere indegni di lutto”[4]: la possibilità di vivere una “buona vita” passa per altri confini, più sfumati che non le sole differenze di genere e di orientamento. Il che non vuol dire che non esista più omo-transfobia, che non esista più sessismo, ma che essi agiscono più sottilmente tra le pieghe del diversity management e del pinkwashing, nella scomposizione della norma eterosessuale e nella riaffermazione del suo dominio attraverso l’inoculazione dei suoi frammenti nei “nuovi soggetti”.

 Da questo punto di vista, particolarmente corretta ci è sembrata l’impostazione del problema che ha dato Olivia Fiorilli in un recente articolo su Commonware[5]. Nel senso indicato da Fiorilli, diventa operazione necessaria “tradire” il dettato di Judith Butler e rilanciarlo – attraverso la stessa autrice – attraverso nuove pratiche e nuovi discorsi formulabili non solo dai soggetti e dai movimenti transfemministi e queer, ma da ogni soggetto o movimento che voglia assumere la lente del queer come potente strumento di lettura per comprendere come agisca una parte dei dispositivi di valorizzazione differenziale approntati dal capitalismo attuale. Allargando dunque il campo, occorre dunque disfare – o disfarsi – agendo sulla propria costitutiva precarietà di soggetti per riconoscere ciò che è messo a valore, giocare oppositivamente la normazione categoriale, sottrarsi al comando neoliberista del godimento normato, e ri-fare e ri-farsi soggetti dove “le maglie del potere” di foucaultiana memoria non tengono: riarticolare una configurazione conflittuale dei soggetti – individuali e collettivi – e rifare, quindi, il genere, l’orientamento e lo stesso soggetto (di classe).

 Su quest’ultimo punto, sulle sfide cioè che si aprono con l’uso degli strumenti dei queer studies per rilanciare nuove forme di soggettivazione, particolarmente importante ci è sembrato il terzo saggio di “Fare e disfare il genere”[6]. Lungi dal costituire un’apologia della precarietà del genere come gioco tutto metaforico e linguistico, “Rendere giustizia a qualcuno” è un saggio nel quale Butler si confronta con la materialità delle pratiche di soggettivazione (e di assoggettamento). David Reimer non è intersessuale, ma è “forzato” alla transessualità, e ad adottare di volta in volta un’identità che non ha scelto. Nelle trasformazioni che riguardano il suo corpo, non ha voce in capitolo. Qui si rivela il punto essenziale almeno del “secondo corso” di Butler: in un corpo a corpo con una visione fuorviante delle teorie “costruzioniste”, la studiosa fa emergere tutta la difficoltà dei percorsi di soggettivazione, e di conseguenza la necessità di preservare, anzitutto, l’agency dei soggetti.

 Nel caso di David Reimer, si vede bene come la precarietà costitutiva del soggetto – e del genere che questo “performa” – non si risolve in un “abito”, da mettere e dismettere con facilità e senza conseguenze, ma piuttosto in un habitus[7], che qui si materializza in una dimensione anche e preponderantemente fisica, col quale è necessario fare i conti. La rivoluzione, insomma, non si impone dall’alto e dall’esterno, come forse i soggetti politici che agiscono attualmente in Italia dovrebbero preoccuparsi di comprendere, anche cogliendo i suggerimenti che provengono in questo momento dalla Spagna e dalla Grecia. Non si può trattare come un dato aprioristico la presa in carico di percorsi di soggettivazione: il ruolo dei soggetti politici attualmente esistenti dev’essere allora quello di promuovere una educazione alle differenze come forme di soggettivazione autonoma, indicare la difficoltà e la fatica della processualità costruttiva del “farsi soggetti” – di desiderio e di classe.

[1] Zappino, Federico, “Il genere, luogo precario. Note a margine”, in Butler, Judith, Undoing gender (London: Routledge, 2004), nuova ed. it. Fare e disfare il genere, a cura di Federico Zappino, prefazione di Olivia Guaraldo (Milano-Udine: Mimesis, 2014), p. 365.
[2] Ibidem, pp. 355-356.
[3] Butler, J., Undoing gender, ed. it. La disfatta del genere, prefazione e cura di Olivia Guaraldo, traduzione di Patrizia Maffezzoli (Roma: Meltemi, 2006).
[4] Zappino, F., “Il genere, luogo precario”, p. 364.
[5] Fiorilli, Olivia, “Butler ai tempi dell’economia della promessa (di riconoscimento)” (19.12.2014), via Commonware, http://commonware.org/index.php/gallery/534-butler-economia-promessa. Data di consultazione: 18.03.2015.
[6] Butler, J., “Rendere giustizia a qualcuno. Riattribuzione del sesso e allegorie della transessualità: un caso”, in Fare e disfare il genere, pp. 107-129.
[7] Per un’introduzione operativa al concetto bourdieusiano di habitus, si consiglia Bourdieu, Pierre, Raisons pratiques. Sur la théorie de l’action (Paris: Seuil, 1994), ed. it. Ragioni pratiche, traduzione di Roberta Ferrara (Bologna: Il Mulino, 20092).

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Authorbox Enrico

Di educazione e “ideologia”

Da un po’ di tempo, nella tranquilla e piovosa Pisa stanno succedendo alcune cose strane: ad ottobre, un gruppo di bizzarr* signor* si è presentato in Piazza dei Cavalieri per vegliare in silenzio, ribadendo così a tutt* che la famiglia naturale, formata dall’unione tra uomo e donna, e ispirata a quella creata da un tale chiamato “Spirito Santo” e una tizia meglio nota come “Madonna”, è l’unica lecita a dimostrare amore verso un’altra persona. Successivamente, menti illuminate hanno pubblicato uno scambio di mail in cui viene attaccata la rete di Educare alle Differenze, recentemente creatasi in città. Contro l’EAD sono state presentate tesi “scientifiche” che dimostrano che i preservativi non proteggono dalle malattie (come la lobby gay ci fa credere da circa 40 anni); si è parlato addirittura di assemblee omosessuali, facendo quindi intendere che anche le assemblee, come dunque i negozi, le riunioni e qualunque altro aggregato umano, possano avere un orientamento sessuale definito e generalizzato. E non finisce qui: ad una conferenza sulla non pervenuta ideologia del gender svoltasi presso la Residenza Toniolo lo scorso 25 febbraio, è seguita la magica¹ calata dal nulla su Piazza dei Miracoli di uno striscione di 600 mq raffigurante un uomo ed una donna che si tengono per mano, con tanto di pargoletti a lato.

Il quadro generale, quindi, secondo quest* signor* (riunit* in vari movimenti ad associazioni) è il seguente: non solo l’Italia, ma il mondo intero, sono dominati da una cricca di omosessuali con manie di potere che cercano di negare il diritto all’esistenza delle modalità di relazione eterosessuali. Tale pericoloso obiettivo verrebbe portato avanti tramite l’imposizione di una ideologia di genere (soprattutto attraverso laboratori di educazione inclusiva nelle scuole) che afferma che tutti e tutte siamo uguali ed abbiamo lo stesso diritto all’esistenza – per l’appunto.

Bene, è il caso di fare chiarezza. L’enciclopedia Treccani definisce il termine “ideologia” come il complesso di credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale. Si tratta, dunque, di un concetto spesso imposto e volto a cambiare la realtà a proprio uso e consumo. La parola “educazione”, invece, deriva dal latino ex ducere, ovvero tirare fuori. L’educazione è un percorso che ci dà gli strumenti per conoscerci appieno e leggere la realtà in maniera critica e costruttiva. Comporta cambiamento, sì, ma non per noi stess*: si tratta di una cambiamento a favore di una società, almeno per come la intendiamo noi, più equa e inclusiva. Nel nostro caso, i percorsi di Educazione alle Differenze, che appoggiamo e cerchiamo di diffondere il più possibile, parlano di una realtà in cui le differenze che ci rendono unic* non sono più un pretesto per odiare, ma vengono riconosciute come valore aggiunto, che arricchisce l’intera comunità. Pertanto, educare alle differenze significa comprendere e rispettare chi ci circonda per ciò che è e vuole essere, nonché amare noi stess* per come siamo – al di là del nostro sesso biologico d’appartenenza, dell’orientamento sessuale, del colore della pelle, della diversa abilità, dell’origine etnica, del credo religioso. In tal senso, l’educazione alle differenze mira a combattere il fenomeno del bullismo (razzista/sessista/omofobico ecc.) che trova le radici in stereotipi e pregiudizi di ogni tipo: che siano di genere, di orientamento sessuale, di professione religiosa, di diversa abilità, di origine etnica.

Come Queersquilie!, ci rivolgiamo direttamente a voi, car* signor*, costantemente in pericolo per colpa di questa lobby malefica: smettetela di fare disinformazione; iniziate a conoscere davvero ciò che denunciate ed attaccate con tanto fervore. Provate a guardare al di là dei vostri pregiudizi. L’Educazione alle Differenze non è un’ideologia, ma un percorso da fare insieme verso l’accettazione di sé e dell’altr*; non è di stampo omosessuale (anche se, “sfortunatamente”, la difesa dei diritti degli/lle omosessuali ne è parte integrante), bensì combatte tutti i pretesti che spesso abbiamo per dividere e dividerci, invece che comprendere ed includere. Come mai vi sentite così minacciati? Perché diffondere così tanto odio? Ve lo diciamo chiaramente: non vi preoccupate. Disapproviamo nel nostro intimo, e con estrema fermezza, le vostre posizioni; in più, abbiamo coscientemente scelto di non aderire al vostro modo di pensare e di rapportarsi a chi non è della stessa opinione. Perciò, proseguiremo lavorando giorno per giorno per quello in cui crediamo: una società in cui ognun* sia liber* di amare, vestire, giocare, essere ciò che vuole e come vuole. Come diceva qualcuno che dovreste conoscere bene e che vi sta parecchio simpatico: chi sei tu che fai da giudice del tuo prossimo?²

Ah, un’ultima cosa: questo gran sforzo di eventi, conferenze, azioni plateali… Da cosa vi nasce? Di cosa avete paura? Forse a spaventarvi è un mondo in cui le differenze esistono, ma senza distanziarci gli uni dagli altri. Se così fosse concedeteci un finale ironico: pregate, pregate, le streghe son tornate!

Queersquilie! – Collettivo femminista queer

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¹ Non sapendo se qualche autorità abbia autorizzato il gesto, per ora ci piace pensare ad una “magica” apparizione.
² Giacomo, 4

Il giorno in cui ho incontrato Katie Piper

Era una normale giornata di lavoro a Selfridges in un tempo imprecisato tra il 2011 e il 2012. Nel solito mix di clienti indecisi, capi da piegare, telefonate e restocking da fare, la mattinata volgeva al termine. Aspettando impazientemente il mio lunch break, ingannavo il tempo chiacchierando con qualche collega e dando informazioni agli spaesati turisti-clienti in cerca di un’uscita, la toilette, boutiques e concessioni varie. Lavorare in un centro commerciale di Oxford Street (Londra) significa essere immersi in un brulicante divenire di facce, voci, stili, informazioni tali da creare una sovrastimolazione che porta ad un inevitabile automatismo nel gestire le interazioni con il mondo esterno.
Quella mattina, all’ennesimo “Excuse me?”, pervasa, appunto, da questo sentimento di insensibile automatismo, mi voltai svogliata, ma davanti a me non trovai la solita faccia sconosciuta. “Do you know where this brand is?”. Rimasi pietrificata. Letteralmente in preda al panico, come se fosse il 1996 e davanti a me ci fosse uno dei Backstreet  Boys. Mille pensieri che imperversano nella mia testa misti ad ammirazione, imbarazzo, stupore e l’unica cosa che riesco a dire è “It’s over there”, indicando il corridoio alla mia sinistra. Lei, Katie Piper, la donna il cui coraggio mi aveva incuriosito e appassionato tanto da farmi leggere e documentare sulla sua vita per mesi, mi ringrazia sorridente e sparisce nella folla.

Katie Piper, oggi è una donna di grande successo, attivista, scrittrice e presentatrice televisiva molto conosciuta. Ma la sua storia è passata alle cronache perché nel 2008 è stata vittima di un attacco con l’acido solforico ad opera di un uomo ingaggiato dal suo ex-fidanzato che l’ha lasciata sfigurata e le ha fatto perdere la vista da un occhio.

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Katie è una delle tante vittime delle orribili conseguenze che scaturiscono dalla spirale di violenza alimentata dall’idea di donna come oggetto, una proprietà ad uso e consumo dell’uomo. La pratica degli attacchi con l’acido è molto diffusa soprattutto nei paesi dell’Asia meridionale, Pakistan, Bangladesh, Cambogia, India, ma sono stati registrati casi anche in Etiopia, Uganda, Kenya e Sud Africa. Da qui nasce la terribile espressione “ragazze acidificate” per indicare donne rimaste sfigurate con l’acido ad opera dei loro partners, che porteranno i segni della violenza subita sul loro corpo per sempre. In Italia il caso più recente è quello di Lucia Annibali, avvocatessa di Urbino che è stata aggredita e sfigurata con l’acido da due uomini assoldati dall’ex-fidanzato; ad aprile dello scorso anno Lucia ha pubblicato la sua autobiografia dal titolo “Io ci sono”.

La storia di Katie mi ha colpito molto perché rappresenta un bellissimo esempio di coraggio e rivalsa personale che va al di là della violenza di genere e che innesca un dibattito più ampio su come le persone che per svariati motivi hanno un aspetto diverso da quello socialmente accettato, siano sistematicamente rifiutate e discriminate fino a diventare nuovamente vittime di violenza. In un discorso tenuto a una TED conference nel 2011 Katie racconta che durante il suo recupero le persone la trattavamo come se la sua vita fosse finita, anche se era solo il tuo aspetto ad essere stato danneggiato, non il suo cervello o le sue capacità.

“Quando sei bella le persone sono gentili con te: chi ti fa complimenti, chi ti lascia il posto in metropolitana, chi ti apre la porta. Dopo l’attacco invece le persone ti chiedono se sei contagiosa, escono dall’ascensore per evitare qualsiasi contatto, ti cacciano dai negozi; è come sentirsi imprigionati in un corpo che non ti appartiene.”

E’ proprio attraverso queste riflessioni che nel 2009 Katie ha deciso di fondare la Katie Piper Foundation, un’associazione caritatevole che aiuta le persone con cicatrici sfiguranti a sottoporsi a trattamenti specifici per migliorare la loro condizione, riunendo esperti da tutto il mondo per condividere le loro esperienze e conoscenze sulla gestione e sul trattamento delle cicatrici. L’obiettivo è anche quello di fornire un supporto morale che favorisca il benessere psicologico che renda più facile la vita di coloro che vivono con cicatrici sfiguranti e che per questo sono esteticamente diversi rispetto ai canoni socialmente predefiniti. Le storie di alcune delle persone che hanno cambiato la loro vita grazie alla KPF sono narrate nella serie di documentari prodotta da Channel 4  Katie: My Beautiful Friends.

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Il giorno in cui ho incontrato Katie Piper, sebbene fossi già appassionata di questioni di genere, non ho avuto abbastanza coraggio per esprimere la mia ammirazione e ancora oggi ho il timore che la mia espressione esterrefatta la abbia in qualche modo infastidita. In realtà in quei momenti di panico pensavo proprio a quale onore fosse per me averla davanti e a quanto fosse bella, nonostante le cicatrici.

Ogni volta che mi torna in mente quell’episodio, mi sento ancora più fiera di far parte di un collettivo femminista, perché per quanto queste storie sembrino lontane dalla nostra vita quotidiana, di donne come Katie ce ne sono tante, anche nella quieta e benestante città di Pisa. Familiari, amiche, amiche di amiche o conoscenti abusate da mariti, amici, conoscenti, bravi ragazzi che “chi l’avrebbe mai detto”. La violenza di genere è un pensiero costante nella vita di ogni donna, perché se non ne si è vittime, si ha continuamente paura di esserlo. Per questo motivo la società tutta deve prendere atto che si tratta di un problema diffuso contro cui mettere in campo ogni mezzo e strategia, a partire proprio dai gruppi sociali più ristretti nei quali i comportamenti violenti si consolidano e si trasmettono.

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authorbox celine

Ecco come tutto ebbe inizio…

Il 20 gennaio 2015, Queersquilie! ha compiuto il suo primo anno di vita. Un anno di crescita comune, eventi, laboratori ed autocoscienze che ci hanno portato grandi soddisfazioni.

Esattamente da lì, dalle autocoscienze, siamo nat* noi: eravamo innanzitutto un gruppo di amiche (a cui successivamente si è aggiunto qualche “maschietto”) accomunate da un forte interesse per le questioni di genere. In maniera informale, abbiamo passato più di un anno a riunirci la sera per scambiarci materiali e condividendo esperienze e riflessioni. anacletoMeravigliose serate a suon di musica, video postporno e considerazioni a partire dal nostro vissuto e dalla nostra quotidianità ci hanno accompagnat* ed aiutat* nell’autoformazione; finché alcun* di noi hanno avvertito la necessità di concretizzare queste riunioni in qualcosa che avesse un maggior impatto politico.

Il 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ci ritroviamo in piazza, volenterose di iniziare. Da lì, tutto succede velocemente: il concepimento del qollettivo, le basi politiche che gli vogliamo dare, cosa ci proponiamo di fare. Siamo in tant*, ma ancora senza una sede, un luogo, idee precise su come impostare il nostro lavoro futuro.

E’ ormai l’inizio di dicembre, quando alcune di noi – accompagnate da qualche bottiglia di vino rosso – iniziano a pensare a quali potrebbero essere nome e logo del qollettivo. Tra una risata e l’altra, buttiamo giù idee a non finire, invidiose del fatto che ci fossero già state menti geniali a pensare ad un nome come Le Ribellule*… Finché, ad un certo punto, un’immagine ci tuona chiara in testa: “Quisquilie e pinzillacchere!”. Anacleto, il vecchio gufo brontolone compagno di Mago Merlino ne “La spada nella roccia”, ci dà la soluzione! QUEERSQUILIE!, ragazze, Queersquilie!

In una società in cui le questioni di genere sono considerate argomenti di nessuna importanza – quisquilie insomma – noi rivendichiamo il termine, lo facciamo nostro e lo queeriziamo! A chi le considera semplici sciocchezze, noi mostriamo la nostra volontà di cambiamento, le nostre denunce, i corpi attraverso cui agiamo, le voci con cui gridiamo! E così, il 20 gennaio 2014, nasce ufficialmente Queersquilie! – Collettivo Femminista Queer.

A febbraio, si tiene la prima assemblea pubblica. Nemmeno il tempo di entusiasmarsi per la stesura del manifesto che – pouf! – Pisa si riempie di volantini che tuonano “Quello che le donne vogliono!”.

Tadaaan! Il terzo anno consecutivo di una kermesse, patrocinata da niente popò di meno che da comune e provincia, vede una stazione riconvertita ad uso pubblico riempirsi di stand dedicati “alla donna e alle sue passioni”: epilazione, abbronzatura, acconciature, trucco, massaggi, danza, shopping, cucito e, dulcis in fundo, “lezione di femminilità con tacco 12”; il tutto tra cartelloni pubblicitari di modelle senza cellulite, con pelle liscia e levigata e televisori che proiettano sfilate di modelle in costume da bagno. Insomma, l’ennesimo evento farcito di stereotipi a gogò sui desideri femminili!

Quella fu la prima occasione in cui uscire pubblicamente per opporci a quell’immagine avvilente e limitante della donna, coscienti che stavamo soltanto facendo valere quella preziosa legge 16 (di cui la Regione Toscana si è dotata dal 2009) contro gli stereotipi di genere. Fu così che scrivemmo comunicati, organizzammo un presidio e ci trovammo davanti alla stazione Leopolda con striscioni, immagini, slogan che offrivano spunti di riflessione. Nonostante per due giorni di fila siamo state additate come “le femministe che bruciano reggiseni e non si depilano” (e, anche se fosse, non vediamo che male ci sarebbe…), siamo riuscit* a confrontarci con le organizzatrici e con gli organizzatori, spiegando loro che definire certe passioni come caratterizzanti dell’essere donna è scoraggiante non solo per il sesso femminile, ma anche per quello maschile: ricondurre alcune attività ad un genere specifico limita le possibilità di ognun* di costruire la propria identità liberamente. Non sappiamo se realmente abbiano compreso quale fosse la questione, ma siamo coscienti che loro stess* sono vittime di quel sistema capitalista che strumentalizza tutte e tutti noi e che, pertanto, va combattuto.

Poco tempo dopo, organizziamo un seminario in università con Lorella Zanardo sull’educazione e l’immaginario di genere. Tutt* abbiamo visto Il corpo delle donne, siamo rimast* affascinat* ed al tempo stesso schifat* dal modello di donna propinato dai mass media. L’evento accoglie una sessantina di persone. Il dibattito è talmente avvincente e partecipato che solo il custode riesce a interromperlo per mandarci via a causa della chiusura del dipartimento. Questa è la prima volta che ci facciamo notare nella realtà che ci è più vicina: l’università.

Le autocoscienze e la formazione proseguono, finalmente ci prendiamo del tempo per noi, pensiamo ai temi da trattare attraverso conferenze, presentazioni di libri e cineforum. L’anno accademico è ormai quasi finito, quando apprendiamo di un programma televisivo intitolato “Come mi vorrei…”. La solfa è sempre la stessa: ragazze che si sentono inadeguate nella loro vita di tutti i giorni – chi per un motivo, chi per l’altro – vengono aiutate dalla strafiga del momento a cambiare sulla base di come la società le vorrebbe. Lanciamo una campagna locale in cui siamo noi, ragazze e ragazzi, a decidere come ci vorremmo sulla base delle nostre aspirazioni, non di quelle che ci vengono inculcate. Siamo stuf* di essere marionette a cui dire come doversi sentire, cosa dover provare e per chi. Ad ogni forma di eteronormatività ed oppressione imposta, contrapponiamo il nostro diritto all’autodeterminazione!

Nello stesso periodo, l’associazione romana di promozione sociale “Scosse”, portatrice del progetto La scuola fa la differenza, viene attaccata dalle destre cattoliche e omofobe; è la prima volta che sentiamo parlare della non meglio precisata ideologia del gender. Capiamo subito che dobbiamo sostenerle, promuovendo insieme a loro e a tanti altri gruppi l’evento “Educare alle differenze”, tenutosi a Roma il 20 ed il 21 settembre 2014.

Un ottimo inizio del nuovo anno accademico, che ci vede impegnat* su più fronti: portiamo avanti il percorso di Educare alle Differenze nel territorio pisano insieme ad una rete di collettivi ed associazioni, organizziamo un ciclo di cineforum sull’empowerment, riflettiamo sui femminismi nell’era postcoloniale, ci divertiamo e sperimentiamo con un laboratorio sui sex toys a cura di Maia Pedullà, prendiamo posizione contro la veglia delle cosiddette “sentinelle in piedi”…

Le cose da fare sono tante e le questioni da affrontare ancora di più. Gli stereotipi e le forme preconcette da decostruire sembrano non finire mai, eppure non ci diamo per vint*. “Crediamo che la visione dicotomica dei generi, prevalente nella nostra società, non corrisponda alla realtà. Crediamo fermamente nella possibilità di vivere la nostra identità sessuale senza essere costrett* a vestire un’etichetta. Intendiamo il modello queer come approccio teorico e metodo di lotta nella decostruzione della cultura dominante e eteronormativa per la co-costruzione di alternative non ghettizzanti. (…) Quindi… Continuare a sognare, vegliare, monitorare, divulgare, denunciare, lottare, cercare, muoversi, agire; insomma, continuare a pestare i piedi e a opporci su tutte quelle cose che una cultura patriarcale, sessista e eteronormativa vuole che siano, e che rimangano solo, QUISQUILIE”.**

Grazie a voi, che ci avete sostenut* ed incoraggiat* durante quest’anno di lotte quotidiane. Continuate a seguirci per scoprire tutte le sfumature della Q… Stay tuned, STAY QUEER!

Note:
*Collettivo Femminista di Roma, ndr.
**Dal nostro manifesto.

Articolo scritto da:
authorbox aurora

author box Geo

Good or bad, it’s my hair!

Qualche tempo fa mi sono imbattuta nei meravigliosi disegni di Carol Rossetti, illustratrice e graphic designer brasiliana che è riuscita diffondere un forte messaggio di rivalsa ed empowerment femminile attraverso la potenza della sua arte. Non a caso, l’illustrazione dalla quale sono rimasta più colpita è quella che ritrae il volto di una ragazza che porta fiera il suo selvaggio e spumeggiante afro. La sua storia, un manifesto:

Maira ama il suo afro, ma si dice che i suoi capelli siano brutti, ispidi, crespi, cattivi. Maira non li liscia proprio per questo motivo. I tuoi capelli sono la tua memoria, la tua stirpe, la tua forza, la tua bellezza, la tua identità e tonnellate di amore! I tuoi capelli, oltre ad essere meravigliosi, sono tuoi. Tu hai il potere!

La domanda sorge spontanea: dove e quando, ma soprattutto, chi ha deciso che i capelli afro non sono “buoni”? Ha provato a rispondere a questa domanda Chris Rock, comico, attore e regista nel documentario co-prodotto con HBO Films, Good Hair.
Ho visto Good Hair per la prima volta qualche anno fa, proprio mentre ero alle prese con il restyling dei miei capelli. Guardare un documentario che indaga le distorte dinamiche dello sconosciuto ma profittevole business che gestisce il settore dell’hairstyling afro-americano e non solo, mentre combattevo (nel vero senso della parola) con la mia indomabile chioma, ha profondamente influenzato il modo in cui mi rapporto ai miei capelli.

Mio padre è Ivoriano ma io sono nata e cresciuta in Italia, paese in cui per ovvie ragioni la cultura dei capelli afro non è mai esistita. A Pisa, la mia città natale, l’unico salone per capelli afro è gestito e frequentato solo ed esclusivamente da immigrati africani. La situazione migliora leggermente a Pontedera, cittadina poco distante, ma solo grazie al contributo della numerosissima comunità senegalese residente sul territorio.
Per questo motivo e per la ovvia incompetenza degli hair-stylist italiani nel trattare i capelli africani, ho avuto il piacere di farmi acconciare solo un paio di volte nella mia breve esistenza. Ma la verità è che nemmeno il migliore dei parrucchieri sarebbe mai riuscito a realizzare il mio sogno, avere i capelli lisci. Il luogo comune sembra inevitabile: “chi ha i capelli lisci li vuole ricci, chi li ha ricci li vuole lisci” – oppure – “A chi piace lo sci non piace lo snowboard e viceversa.” Niente di tutto questo. Le ambizioni di una ragazza con i capelli afro che si sottopone a ore di pettine e forbici, trattamenti chimici di ogni sorta, piastra, bigodini e chi più ne ha più ne metta, vanno ben oltre il semplice aspirare all’acconciatura perfetta. Le ragioni che risiedono dietro a quella che è una vera e propria cultura hanno profonde radici di natura etnica ed identitaria.

Tornando al documentario, lo stile dei capelli è parte integrante degli usi e dei costumi di molte etnie africane, esso rappresenta lo status quo di un individuo (religione, stato economico, età, etnia e altri attributi d’identità) ed ha una forte rilevanza sul piano sociale, basti pensare all’importanza dei barber shops come luogo di interazione e scambio culturale e intergenerazionale all’interno delle black communities americane. Ma quello che emerge, sia dal lavoro di Chris Rock che dall’esperienza di vita quotidiana della maggior parte delle ragazze di colore che conosco (me inclusa), è che tutti gli strumenti e le tecniche ideate per trattare i capelli africani sembra abbiano lo scopo di fare diventare i capelli africani capelli europei, bianchi, “buoni”.
Perché le donne di origine africana adottano un ideale di bellezza che non è basato sulle naturali caratteristiche dei loro capelli? Perché ci sottoponiamo a ore di stress e dolore per raggiungere, anche solo per poche ore, questa definizione di bellezza?

Acconciatura della moglie di un capo tribù Niao, territorio We, Costa D’avorio. Foto: Vandenhoute 1938-39, IV.F.VII. 134-10.

Acconciatura della moglie di un capo tribù Niao, territorio We, Costa D’avorio. Foto: Vandenhoute 1938-39, IV.F.VII. 134-10.

Il concetto di moda ha sempre implicato l’utilizzo di fastidiosi e dolorosi accessori per la manipolazione del corpo e dell’immagine, come corsetti o busti, ma perché oggi preferiamo portare hair extensions se non direttamente una simil parrucca, come nel caso della popolare weave, piuttosto che mostrare la nostra naturale capigliatura pur se crespa o poco femminile?
In Good Hair, Nia Long attrice statunitense afferma che c’è sempre una sorta di meccanismo discriminante all’interno della comunità nera: se hai i capelli “buoni” se più carina o semplicemente migliore della ragazza di colore che porta l’afro, dreads o altre capigliature “naturali”.
Indagare l’origine di questa dicotomia estetica intrinseca del mondo femminile africano ci porta indietro nei secoli fino ai tempi dello schiavismo, periodo in cui gli schiavi venivano rasati a zero per motivi igenico-sanitari. L’arte dell’intreccio diventò allora un atto di ribellione, un baluardo identitario che, anche se portato di nascosto, restituiva la dignità, l’identità e la cultura a coloro che ne erano stati espropriati.

In seguito, con l’avvento della piastra lisciante all’inizio del ‘900, iniziò il lungo processo di assimilazione dei canoni estetici occidentali. Ovviamente non fu solo l’invenzione di un semplice strumento a cambiare le scelte estetiche di milioni di donne di origine africana, molte infatti continuarono a portare intrecci e altre acconciature tradizionali.Il vero punto di svolta fu determinato dalla diffusione dei generi Blues e Jazz che negli anni ‘20 permisero all’industria discografica statunitense di creare la prima classe di dive nere della storia della musica. Le donne che tutte volevano essere: dal passato difficile ora indipendenti, aperte, libere da lavori domestici, ma soprattutto icone di stile, donne nere con i capelli stirati. Impossibile non ricordare Ma Rainey, Bessy Smith, Billie Holiday cantanti che hanno aperto la strada a dive come Ella Fitzgerald, arrivata sulla scena musicale internazionale qualche decennio più in là.  Donne di successo che con la loro musica e con il loro stile hanno profondamente influenzato le scelte in campo estetico di molte generazioni successive.

Billie Holiday

Billie Holiday

Negli anni 50’ però i primi segnali di volontà di ritorno alle origini si fecero sentire: le rivolte contro il colonialismo in Africa e la diffusione della nuova cultura Beat portò artisti, studenti ed attivisti afroamericani a guardare nuovamente alle acconciature tradizionali africane. Dal 1969 in poi con la diffusione del movimento Black Power lo stile afro diventò un vero e proprio culto di massa.

Oggi come negli anni ‘20, la maggior parte delle dive di colore a cui milioni di ragazzine aspirano ad assomigliare hanno meravigliosi capelli lunghi e lisci, o meglio, così ci fanno credere. Infatti il mercato delle hair extensions ha completamente rivoluzionato il settore dell’hairstyling e la vita di milioni di donne: perchè spendere tempo e denaro cercando di acconciare indomabili capelli ricci e crespi quando si possono semplicemente nascondere per indossare i capelli lisci provenienti dalle teste di altre donne?
Le extensions di capelli naturali sono sempre più richieste nei black hair salons dei paesi occidentali. In Inghilterra il ricavato della vendita di questi prodotti risale a 60 milioni di pound circa l’anno, infatti per la migliore qualità rispetto ai capelli sintetici e per la possibilità di essere acconciati, il loro prezzo è nettamente superiore. Purtroppo chiedersi da dove provengano queste pregiatissime chiome porta alla luce una realtà molto triste che, se da un lato realizza il sogno di molte donne di possedere un liscio perfetto, dall’altro sfrutta e priva di dignità altre donne che invece sacrificano i loro capelli. Di fatti, migliaia di donne indiane donano i loro meravigliosi capelli alle divinità nei tempi Hindu in segno di gratitudine e rispetto, completamente ignare del fatto che i loro capelli verranno venduti per diventare temporanei costosissimi prodotti di bellezza. A questo proposito Jeanette Catsoulis, giornalista del New York Times, in una sua recensione del documentario di Chris Rock, analizzando la frase di Al Sharpton religioso, attivista e politico statunitense “We wear our economic oppression on our heads”, mette in risalto la natura deviata e perversa dell’economia globale dei giorni nostri: se fino a pochi decenni fa il mercato e la produzione dei prodotti per capelli africani erano gestiti da imprenditori afroamericani e rivolti a consumatrici e consumatori afroamericani, oggi i profitti della vendita di hair extentions naturali finiscono totalmente nelle mani produttori asiatici. Un chiaro esempio di questo nuovo business asiatico si può trovare a Londra, nel quartiere di Dalston, dove si trova il negozio più famoso della capitale per la vendita al dettaglio di hair extensions e altri articoli per capelli afro. Il magazzino, gestito da asiatici e frequentato principalmente da clienti di origini africane o caraibiche, non a caso è situato nel cuore di un quartiere in cui la comunità nera è in continua crescita dagli anni ‘60.

Donna indiana dona i suoi capelli alle divinità Hindu nel tempio di Tirumale in India

In conclusione, l’infinta ricerca della felicità tramite il raggiungimento di canoni estetici preconfezionati e privi di alcuna logica (se non di quella puramente economica) comporta inevitabilmente due tipi di sfruttamento: quello di donne nei confronti di altre donne e quello del sistema economico nei confronti di tutte le donne, poiché educate e socializzate ad essere disposte a tutto per incarnare ideali di bellezza che altri hanno deciso per loro in base a strategie di mercato.

 Quando ero bambina il mio sogno più grande era avere i capelli lunghi perché i miei erano cortissimi e afro; tutte le altre avevano i capelli lunghi: la mia mamma, le mie Barbie, le mie amiche, le mie cantanti preferite. Durante la mia adolescenza ho passato ore, spesso giorni a trattare, trasformare i miei capelli per portarli a essere quello che non sono e che per loro natura non possono essere. Poi un giorno ho deciso che non volevo più fare il gioco di nessuno attraverso i miei capelli, se non il mio. Non volevo più portare secoli di oppressione economica sulla mia testa, non desideravo più cambiare la mia natura, anzi volevo finalmente accettarla, farla mia. Anche io, come Maira, oggi penso che i miei capelli siano la mia memoria, la mia identità, la mia forza e che ci sia un grande bisogno di liberare l’immaginario collettivo, femminile e maschile, da queste perverse gabbie estetiche di cui tutta la società è prigioniera. Carol Rosetti manda messaggi importantissimi con le sue illustrazioni che toccano diversi aspetti dell’universo femminile e non solo. Il messaggio di Maira è anche il mio e ho voluto contribuire a diffonderlo perché fiera dei miei 174 dreads grido: “Good or bad, it’s my hair!”.

Articolo scritto da:

authorbox celine