Nel 1999, l’Assemblea Generale dell’ONU proclamò il 25 novembre “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”. Per quanto questa data abbia ormai assunto una rilevanza non indifferente a livello mondiale, ancora poch* conoscono l’episodio che ne segnò la valenza simbolica.
Era il 25 novembre 1960, un giorno come tanti nella Repubblica Domenicana oppressa dalla dittatura del generale Trujillo. Un giorno come tanti… Forse. Le sorelle Mirabal, militanti politiche del gruppo rivoluzionario “14 giugno”, vennero fatte assassinare dagli agenti della polizia segreta. Tre donne, tre rivoluzionarie, divennero quindi il simbolo di quella violenza inaudita che si scaglia contro le donne in quanto donne – violenza che non è “solo” domestica, nè tanto meno “solamente” fisica.
La violenza sulle donne è innanzitutto l’effetto di una forma sistematica e culturale di discriminazione in ogni ambito della vita, dalla sfera privata a quella pubblica, sul piano lavorativo e sul piano personale: è un meccanismo che opera capillarmente e con varie sfumature, dalle più lievi alle più evidenti e dirette, in tutto il nostro tessuto sociale. È già violenza non essere libere di camminare per strada senza sentirsi continuamente invase nei propri spazi, dover pensare a dove stiamo andando per poterci mettere quella gonna, sentirci dire che ce la siamo cercata, è dover firmare dimissioni in bianco promettendo al datore di lavoro che non resteremo incinte.
In un’Italia in cui, nel 2013, è morta una donna ogni tre giorni per mano del partner o dell’ex-partner, il tasso di femminicidi (termine a tutt’oggi inflazionato, che sta ad indicare l’omicidio di una donna per il fatto che è donna e che quindi deve sottostare ai ruoli che sono stati socialmente designati per il genere femminile) rappresenta purtroppo solo la punta di un iceberg fatto di discriminazioni sul posto di lavoro, in politica, in università, per strada, sull’autobus.
Lo dimostrano le pubblicità televisive, i tagli del governo PD ai centri antiviolenza, alcune sentenze della Cassazione, le percentuali di disoccupazione femminile. Lo dimostrano, purtroppo, anche i dati sulla violenza domestica, le moltissime donne costrette a scappare da familiari o partner violenti, i lividi e le botte. Ma quei lividi, quei segni, non sono la disgrazia che capita ad alcune, non sono la sfortuna di aver trovato chi non ti ama e non ti rispetta. La violenza di genere non è un fenomeno individuale o psicologico, ma un fenomeno sociale che consiste nella diseguale distribuzione del potere tra uomini e donne. E, in quanto tale, concerne la società nel suo insieme, riguarda tutte e tutti noi.
In una società in cui il Capitale la fa da padrone, è necessario che ci siano sfruttat* e sfruttator*. È toccato agli schiavi africani, agli indios dell’America Latina, ai bambini nelle miniere. Tocca anche a noi donne, rinchiuse nei ruoli sociali di madri e mogli – angeli del focolare domestico. (S)oggetti di qualcun altro, che spesso dice di amarci. Noi, che dobbiamo rientrare in canoni di bellezza impossibili per cui non ci sentiamo mai all’altezza, mai adeguate. Noi, che a chi ci dice: “Tu senza di me non vali nulla”, ogni tanto crediamo pure.
Ebbene, no. Noi non siamo vittime. Non siamo le vittime di violenza di genere, domestica o pubblica che sia. Noi siamo le sopravvissute. Sopravviviamo giorno per giorno ad una realtà che ci fa sentire prima donne che persone, e rivendichiamo il nostro posto nel mondo quali individualità singole e forti del nostro essere, innanzitutto, essere umani.